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Il nostro conoscere è ‘Adaequatio intellectus et rei’ cioè continuo aggiustamento di un processo senza fine: la verità esiste ma non è data a noi in questo mondo una volta per tutte, ma solo nella nostra tensione continua verso la maggiore conformità dei nostri modelli con le risultanze sperimentali.

Vacanze meravigliose quelle di quest’anno. La provincia di Trapani offre mare cristallino, panorami sognanti, meraviglie dell’arte, cucina sopraffina; ma ciò che più di tutto allarga il cuore è la calda ospitalità della gente di Sicilia. Se poi da quelle parti vivono dei cari amici…allora il rimpianto per le ferie finite rischia di divenire insopportabile. Per lenire la nostalgia gli amici di Sicilia ci fanno dei doni che ci permettono di riassaporare quelle sensazioni .. solo che questa volta il dono del mio amico Ignazio Licata è molto di più di una piccola consolazione personale. Non si tratta né di frutta martorana né di succo di mandorla, ma di una lezione per tutti noi che cerchiamo di mettere in pratica il concetto di bene comune, convinti che sia la via maestra per un futuro migliore o addirittura per la stessa esistenza di un futuro.

Come Ignazio mi aveva anticipato, con un sorriso bonario ed un pochino misterioso, tornato a Roma ho trovato il ‘pdf’ del suo ultimo libro ‘Complessità. Un’introduzione semplice’ in uscita per la Duepunti di Palermo: “Vedi un po’ che te ne pare, poi mi fai sapere” mi aveva detto. Alla fine della lettura delle circa centoventi pagine del libro ero insieme stordito ed affascinato: il succo di quello che provo a esprimere da anni, anche negli interventi che vi propongo nelle pagine di questo sito, ma anche il succo di tutto ciò che ho recepito da amici come Leonardo Becchetti sull’importanza di ripensare l’economia ed insieme l’essenza, il sentire comune che in maniera impalpabile unisce tutti noi che partecipiamo a Benecomune.net, le visioni dei miei amici Carlo e Lorenzo sulla natura della scienza e della matematica era lì in bella forma, chiaro e conseguente.
Proverò a riassumere questo ‘concentrato di senso’ ad uso dei nostri lettori. Intanto l’autore Ignazio è un fisico teorico, e questo gli fornisce una particolare prospettiva che lui dichiara sin dalle primissime pagine quando, trovandosi a presentare quello che può apparire il solito pretenzioso e scintillante saggio su un tema di moda ci avverte che, come fisico, non potrebbe mai essere metodologicamente anti-riduzionista. Così facendo Ignazio ci ricorda che qualsiasi seria attività scientifica deve per forza operare con una programmatica ‘riduzione’ del reale a modelli semplificati, a descrizioni in termini di interazioni tra elementi semplici. Questa affermazione tronca di netto con ogni tipo di ambiguità del tipo di quelle ultimamente apparse sulle terze pagine dei ‘giornaloni’ che confondono (..con quanta buona fede è difficile dirlo) la realtà con la sua rappresentazione da parte della scienza, implicitamente sottintendendo che la ‘scienza ha già definito tutto’ e quindi condannando a morte quell’attività che invece vorrebbero farci credere di amare svisceratamente.
Ma se Ignazio non può essere metodologicamente un anti-riduzionista, di certo lo è (sono parole sue) ‘nel senso del riduzionismo ideologico, la foglia di fico dietro cui prospera la tecnoburocrazia, il ‘nient’altro che’ e infine il fatale ‘le cose stanno così’. Reificare i processi in oggetti trasformando l’osservatore in un deus ex machina esterno al sistema ha avuto consguenze dannose sulle scienze della vita e soprattutto sul modo di concepire le discipline socio-economiche’.
Insomma l’idea diabolica di disfarsi del contenuto critico e di apertura al mondo della scienza offrendone una caricatura di ‘verità assoluta e definitiva’ da cui muovere per un controllo totale della società. Ora i nodi stanno venendo al pettine, ci suggerisce Ignazio, e ciò che prima era confinato nell’ambito dei dibattiti di una ristretta cerchia di fisici teorici si sta rovesciando con violenza nel mondo in termini di crisi economica e, cosa ancora più grave, di crisi educativa e di prospettiva di un futuro possibile.

Ignazio inizia da lontano e, coerentemente con la sua formazione scientifica, dalla fisica quantistica che, al dil là di fantasiose e suggestive mitologie, prima fra tutte le scienze, circa un secolo fa si trovava di fronte ad un bivio drammatico: la non separabilità tra l’oggetto della sua indagine e la riflessione sugli strumenti di misura che questa indagine rendono possibile. Il carattere ‘classico’ degli strumenti di misura confliggeva inesorabilmente con il carattere ‘quantistico’ della realtà investigata. In altre parole il problema era che gli strumenti di indagine usati dai fisici, per le loro stesse dimensioni, obbedivano a delle regolarità della natura molto differenti da quelle a cui obbediva il mondo che i fisici erano interessati ad indagare.
Da questa discrasia nasceva il corto circuito tra osservazione del mondo e riflessione sull’attività di osservazione che probabilmente alcuni lettori avranno incontrato in qualche libro o articolo divulgativo indicato come ‘doppia soluzione’ o ‘collasso della funzione d’onda’, cioè del fatto che lo stesso fenomeno ‘DIVENTAVA’ ‘onda’ o ‘particella’ a seconda dell’arbitrio dello sperimentatore. Questo è esattamente il genere di cose che a volte vengono usate in certi articoli chiaccherati per impressionare con iperboli del tipo ‘..la natura non esiste’. Ecco cosa ci dice Ignazio a questo proposito ‘..da una parte c’è chi ritiene che l’osservatore è cruciale nel ‘collasso della funzione d’onda’, dall’altra chi ritiene le misure quantistiche indipendenti dall’osservatore. Senza entrare troppo nel regno quantistico, possiamo dire che hanno ragione entrambi, o in modo equivalente che le due posizioni sono errate. I processi naturali non dipendono certo da noi, però ciò che osserviamo è sicuramente legato alle nostre scelte. In un processo quantistico possiamo concentrarci sul lato corpuscolare o su quello ondulatorio degli oggetti’.
Questo è lo snodo fondamentale. Hanno torto (ed in un modo che esita in conseguenze sorprendentemente simili) sia i post-moderni radicali che ci assicurano che non esiste natura, non esiste una verità, che tutto il mondo della nostra esperienza non è ‘niente altro che..’ una nostra costruzione mentale e sociale, sia chi da scientista non ammette alcuna traccia di ‘soggettività’ nei risultati scientifici e che la realtà, tutta la realtà, sia ‘niente altro che..’ ciò che ci dice la scienza.
Entrambe queste posizioni dimenticano un piccolo ma essenziale particolare e cioè che il fatto che noi siamo parte del quadro della natura la qual cosa fa sì che, come ci ammoniva Tommaso d’Aquino, il nostro conoscere è ‘Adaequatio intellectus et rei’ cioè continuo aggiustamento di un processo senza fine: la verità esiste ma non è data a noi in questo mondo una volta per tutte, ma solo nella nostra tensione continua verso la maggiore conformità dei nostri modelli con le risultanze sperimentali. Allora il nostro sforzo non è quello del ‘controllo assoluto’ né tanto meno quello della ‘costruzione di mondi razionali’ che prescindono dal confronto umile con la realtà, ma un amorevole seguire delle ‘storie conseguenti’, di adattarsi a ciò che la realtà ci propone ben sapendo che l’irriducibile complessità del reale ci porrà di fronte in maniera inaspettata a dei ‘cigni neri’, a ciò che mai avremmo potuto prevedere, mai avremmo potuto prendere in considerazione nelle nostre (per definizione parziali) rappresentazioni del mondo. Diamo ancora la parola a Ignazio ‘..quello che esploreremo è un territorio in cui più che le cose in gioco, singolarmente prese, è interessante studiare i cambiamenti globali delle loro relazioni’. Concentrarsi sulle relazioni ci consentirà di sviluppare una saggezza (meglio a mio avviso ricorrere a questo antico termine che ha al suo interno una presa di coscienza etica sul mondo, per cui il buono non è più separabile dal vero, piuttosto che all’apparentemente neutrale scienza) ‘..potrà essere applicata a un’azienda oppure a una proteina in virtù di ciò che le accomuna, che non è certo una questione di componenti o di struttura, ma di logica evolutiva. Naturalmente non ci aspettiamo che una teoria di questo genere possa renderci in grado di calcolare ciò che per sua natura è incalcolabile, ma descriverà comportamenti globali e ci suggerirà storie possibili sulle quali intervenire’.
Insomma bisogna re-inserire l’osservatore con tutto il suo bagaglio di sentimenti, motivazioni, punti di vista, scelte, all’interno del mondo togliendolo da una ‘freddissima’ posizione di osservatore esterno ed imppassibile che, a ben vedere, è solo una posizione di profondo disprezzo verso la natura a cui appartiene. E così i pasticciatissimi proclami delle varie neuroetiche, neuroeconomie, neuroteologie, ammantano una sconcertante ingenuità metodologica di un’aura di ‘necessità’ dimenticandosi l’ovvia presenza dell’imprevisto, derivante dall’impossibilità di conoscere completamente sistema ed ambiente anche perché noi siamo parte integrante del gioco. Quando ci raccontano di aver scoperto ‘l’area del cervello dove risiede quel nostro particolare giudizio sul mondo’, la domanda più ingenua e disarmante è allora ‘..bene, ed ora che lo sai, tu, con la tua separazione dai condizionamenti, cosa ne pensi? O magari anche tu sei costretto a pensarla così, o forse il tuo cervello da scienziato è superiore e svincolato dalla materia?’.
Attenzione, non si tratta semplicemente di costruire una pratica scientifica più ‘efficace’ perché più fondata sulla realtà e sull’esperimento; qui in gioco c’è molto di più, come ci ammonisce Ignazio ‘Prendere una posizione critica nei confronti della scienza riduzionista, e dunque unica perché ideologica, non è soltanto un esercizio di onestà intellettuale che riguarda i filtri cognitivi e la conoscenza scientifica, ma è un’indispensabile premessa di libertà individuale e sociale’ .
Questo diventa di drammatica evidenza quando si passa a considerare le grossolane semplificazioni ancora in auge nella scienza economica, dove un modello di ‘homo oeconomicus’ maniacalmente rivolto alla massimizzazione del profitto come unico obiettivo perseguito ha portato al disastro epocale a cui stiamo assistendo in questi ultimi anni. Allora, se consideriamo le aziende, le attività economiche, le ‘imprese’ per quello che realmente sono in termini di reti di relazione tra soggetti, scambio e creazione di informazione, ci accorgiamo che la massimizzazione del profitto è solo una parte del gioco ‘Per impresa non possiamo limitarci ad una definizione basata su produzione e consumo. Dobbiamo pensare a quelle iniziative e gruppi (a volte informali, eppure capaci di esibire un’identità relazionale) che hanno creato cultura e valori: il gruppo di Bloomsbury…e ancora la Sony, con il suo motto “make.believe”, nata nel 1946 sulle ceneri nucleari di un Giappone distrutto, dall’amicizia tra un ingegnere e un fisico..con idee produttive un po’ vaghe ma con la ferma intenzione di ridare al Giappone la sua dignità…. Impresa è termine che deve essere liberato dall’associazione riduzionistica con un “prodotto”, e riconnesso alla funzione sociale, al ruolo, allo stile, alla produzione di cultura… Ed infine, anche il concetto di “strategia” deve ritornare alla sua dimensione cognitiva e differenziarsi rispetto a quello di marketing’.
Accettare consapevolmente questa ‘apertura logica’ dell’impresa ci costringe a demistificare parole ritenute sacre come ‘innovazione’ che in ultima analisi si risolve nel ‘miglioramento ipertrofico dell’esistente’, esattamente quello a cui stiamo assistendo oggi dove ormai i margini di miglioramento sono talmente risicati da essere del tutto immateriali. L’innovazione comunemente intesa insomma, non solo non basta più ma può addirittura risultare dannosa, come ci ricordava Gilbert Keith Chesterton cento anni fa nel suo bellissimo ‘Cosa c’è di sbagliato nel mondo’. Nei momenti di crisi abbiamo bisogno di teorici, di uomini apparentemente poco pratici che guardino oltre l’esistente, visto che la crisi in sé non è altro che la manifestazione del fallimento del modello considerato razionale fino a quel momento.
Ignazio chiarisce bene questo punto quando afferma che ‘..il problema non consiste nell’essere il migliore giocatore ma nell’ideare nuovi giochi’.
La proposta è allora quella di sfumare i confini rigidi tra azienda e ‘resto del mondo’ e considerare la ricerca di ‘segnali deboli’ e ‘senso’ al di fuori delle logiche pre-costituite. Le imprese di successo, in un epoca di raggiungimento dei limiti dell’aumento quantitativo, sono quelle che riescono ad inventarsi nuove strade da percorrere ‘..l’idea centrale è la dinamica reciprocità/servizio; in pratica una società è tanto più ecosostenibile e sfrutta la complessità virtuosa quanto più i rapporti sono reticolari e distribuiti, centrati il più possibile su specificità locali, mentre se ne allontana quando l’asse oscilla troppo a lungo sui bisogni indotti, sulla terziarizzazione selvaggia, sul ‘mordi e fuggi’, sulla ‘globalizzazione’. Tutto quello che rappresenta insomma un allontanamento orizzontale dai bisogni ed espressioni concrete della gente e dai loro contesti’.
I lettori avranno senza dubbio colto in queste frasi il nucleo essenziale della proposta che anima BeneComune.net: l’ostinato amore verso la realtà, il concreto, il contesto ‘ecologico’, che per definizione non può che essere specifico e locale. La novità è che questa posizione che all’inizio della rivoluzione industriale era considerata ‘passatista’ ora si rivela come l’unico antidoto all’estrema fragilità dei sistemi troppo interconnessi. La nuova scienza dei sistemi ci ha fatto riscoprire la compresenza di differenti piani del reale, la multicausalità, l’adattamento sistemico, la non-linearità della natura. ‘In sintesi: le cose che si rivelano davvero preziose nel lungo periodo, e resistono alle crisi e alle mode, sono quelle che guardano lontano nel passato e nel futuro, la cui vitalità non è mai riducibile a pochi occasionali successi, e neppure a una ideale perfezione definitiva, ma riflette piuttosto una ricca dinamica interna e la capacità di fornire strumenti efficaci in molte direzioni’.
Derivare questa lezione dalla nuova scienza della natura ha un valore a mio parere incalcolabile, è una chiusura del cerchio che finalmente ci fa sperare in una ragione piena e non nella sua meschina caricatura ‘puramente calcolante’ vincolata da binari rigidi ed astratti.
Questo vi riporto dalle vacanze, ma è solo un assaggio di quello che potrete scoprire leggendo il libro, un movimento deciso verso la re-integrazione di ciò che è umano, una bella e dolce medicina contro la disumanizzante scienza (ed economia) dei gadget.

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