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Custodire i piccoli e le figure educative che a vari livelli sono loro di riferimento, è un impegno essenziale che interpella la responsabilità di ognuno. Se i piccoli sono considerati sempre in termini di “potenzialità da tradursi in atto” in tutte le dimensioni della vita – cognitiva, relazionale, affettiva –, inevitabilmente si rischia di considerarli tali anche rispetto all’essere cristiani.

Ci sono etimologie fantasiose che risultano particolarmente affascinanti, altre invece, verosimili, che consentono di scendere nella profondità delle parole fino a connotare di un valore aggiunto il loro significato. Così accade con cura. Il legame fra cura e cuore, immaginato tra gli altri da Isidoro di Siviglia, ha potenzialità evocative fuori dal comune. L’accostamento invece, in etimologie più accreditate, del verbo “curare” al verbo “vedere” fa coincidere la cura con l’azione responsabile che segue l’osservazione.

È bello pensare che in un orizzonte educativo queste due diverse etimologie, quella creativa e quella verosimile trovino sintesi. La prossimità, l’azione educativa della comunità ecclesiale si esprime infatti – così papa Francesco in Evangelii gaudium, 169 – nel «contemplare, commuoversi e fermarsi davanti all’altro tutte le volte che sia necessario». Sono verbi, quelli usati dal papa che rinviano proprio alle categorie del vedere e del prendere a cuore. Ma cosa significa contemplare, commuoversi e fermarsi di fronte alle storie dei piccoli?

 

Non confondere la minorità con una mancanza di pienezza

L’imporsi nel secolo scorso di un’istanza pedagogica che ha iniziato a guardare all’infanzia come una stagione della vita portatrice di valore di per sé ha recentemente lasciato il passo a fenomeni tristemente noti: adultizzazione dell’infanzia, infantilizzazione degli adulti, infanzia violata, infanzia incompiuta. La cultura dello scarto a cui papa Francesco fa riferimento relativamente al principio e alla fine dell’esistenza, trova una sua declinazione anche nel corso dell’esistenza stessa. La «tristezza individualista» deforma come uno specchio concavo/convesso l’immagine di chi ha bisogno di essere custodito: i piccoli si trovano così ad essere o già grandi, o sempre indiscriminatamente piccoli. Paradossalmente ad un aumento di interesse nei confronti dell’infanzia, non corrisponde una reale attenzione ai valori del suo mondo. Si finisce insomma per confondere la minorità come una mancanza di pienezza dell’esistenza. Ciò che è “a misura di ragazzo” diventa così inevitabilmente un sottoprodotto in tutte le dimensioni della vita. Tale questione chiama in causa necessariamente anche i gruppi, le associazioni e i movimenti ecclesiali che hanno a cuore la cura e l’accompagnamento dei bambini e dei ragazzi: se i piccoli sono considerati sempre in termini di “potenzialità da tradursi in atto” in tutte le dimensioni della vita – cognitiva, relazionale, affettiva –, inevitabilmente si incorrerà nel rischio di considerarli tali anche rispetto all’essere cristiani.

 

L’intuizione di Vittorio Bachelet e il protagonismo dei bambini e dei ragazzi

Quando ormai quasi cinquant’anni fa, l’Azione Cattolica, si interrogava sul ruolo dei bambini e dei ragazzi nella Chiesa e nella società, alla luce delle riflessioni emerse nel Concilio Vaticano II, Vittorio Bachelet affermò profeticamente: «sono spesso non solo i più piccoli, ma anche i più semplici quelli che, nella Chiesa, hanno statura più grande. E, sono essi che hanno voce più attiva nella Chiesa, che è mistero di grazia». Possiamo altrimenti dire che l’intuizione di Vittorio Bachelet e di tutta l’Azione Cattolica ha trovato corpo in una preposizione articolata, in quel «dei» che non esprime una notazione di possesso né la rivendicazione di un’autonomia, ma traduce una scelta educativa: quella del protagonismo dei bambini e dei ragazzi.

Si tratta insomma di riconoscere e di accompagnare i piccoli a vivere quella dignità profetica, battesimale e regale che non si conquista con merito ed esami né si perde in forza di un percorso accidentato ma si ha in dono con il Battesimo. La scommessa del protagonismo è poi un evidente «strumento per la promozione della loro dignità di persone, via preferenziale per qualsiasi percorso di discernimento vocazionale […] tramite per la coscientizzazione di un’originalità da mettere al servizio della comunità». È, insomma, «un protagonismo che non isola ma che mette in relazione, che non scimmiotta la meritocrazia degli adulti», è un protagonismo che si pone in ascolto rispettoso del pensiero dei piccoli, ne valorizza l’originalità considerandoli cristiani e cittadini dell’oggi e non del domani. E’ un protagonismo poi, che non scade nel puerocentrismo ma che, attraverso l’appartenenza e la vita associativa, fa gustare ai bambini ed ai ragazzi la ricchezza dell’intergenerazionalità e fa sperimentare loro quelle prospettive di bene che si aprono lungo la direttrice del patto fra le generazioni, oggi sempre più di frontiera.

 

Con il passo delle famiglie

La cura dei bambini e dei ragazzi passa poi attraverso il gesto del «togliersi i sandali davanti alla terra sacra» delle loro famiglie (Evangelii gaudium). Il rispetto della globalità della loro storia e, contestualmente, la valorizzazione del protagonismo di ciascuno non può prescindere dall’esercitare “l’arte dell’accompagnamento” e il “ritmo salutare della prossimità” in primis nei riguardi delle famiglie.

In tal senso l’Azione Cattolica dei Ragazzi, quale espressione dell’attenzione dei giovani e degli adulti di tutta l’associazione ai più piccoli, intreccia l’ordito del proprio cammino con la trama della vita concreta delle famiglie facendo suo uno sguardo risanato dalla miopia dell’astrazione, capace di farsi prossimo e quindi, amorevole. La risorsa di essere un’associazione intergenerazionale fa sì che le famiglie dei bambini e dei ragazzi dell’Azione cattolica trovino un sostegno poliedrico nell’adempimento della loro missione educativa. Aldilà della preziosità del cammino proposto a ragazzi, giovani e adulti, aldilà degli strumenti pensati per l’accompagnamento delle famiglie (su tutti l’agenda “InFamiglia”), la prossimità alle famiglie avviene nell’ordinarietà e nella concretezza della vita, intrecciando relazioni di vita buona che consentono a tutte le famiglie di riconoscersi sempre – pur nella fatica e nella fragilità – come un «bene per la Chiesa» (Amoris Laetitia, 87) e per la società civile.

Custodire i piccoli e le figure educative che a vari livelli sono loro di riferimento, è evidentemente un impegno essenziale che interpella la responsabilità di ciascuno nei confronti di questo tempo. Custodire i piccoli è, per i giovani e gli adulti dell’Azione Cattolica, l’impegno ad essere responsabili di un Amore: è vedere e prendere a cuore. Vedere in «ogni bambino che nasce la promessa di una vita che ancora una volta si dimostra più forte della morte». Prendersi a cuore di «ogni amore che sorge» come «una potenza di trasformazione che anela alla felicità» (Francesco, Udienza Generale, Roma, 20 Settembre 2017).

 

*Questo articolo è stato realizzato con il contributo di Claudia D’Antoni e Annamaria Bongio

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