L’alleanza e il mutuo riconoscimento tra gli studenti del Sessantotto e i protagonisti “dell’autunno caldo” – una stagione breve ma intensa che caratterizzò la prima metà degli anni Settanta – nacque dall’innamoramento del movimento degli studenti per la straordinaria radicalità delle loro forme di lotta e per il profilo nettamente egualitario ed antiautoritario dei loro obiettivi

Studenti e operai uniti nella lotta. L’alleanza e il mutuo riconoscimento tra gli studenti del Sessantotto e i protagonisti “dell’autunno caldo” – una stagione breve ma intensa che caratterizzò la prima metà degli anni Settanta – nacque dall’innamoramento del movimento degli studenti per la straordinaria radicalità delle loro forme di lotta e per il profilo nettamente egualitario ed antiautoritario dei loro obiettivi. Ma a spiegare il fascino dei primi contatti davanti alle grandi fabbriche o nelle manifestazioni di piazza c’era anche molto altro. Una forte empatia generazionale con quei giovani operai per lo più immigrati dalle campagne del Mezzogiorno, con pochissima istruzione scolastica, nessuna familiarità con i ritmi e i valori della società industriale, nessuna esperienza sindacale e politica, ma con l’enorme vantaggio, rispetto ai vecchi operai “di mestiere” che erano la base tradizionale dei sindacati e della sinistra politica, di non avere sulle spalle il peso opprimente delle sconfitte degli anni del fascismo, della guerra, della repressione sociale e politica degli anni Cinquanta.

Come non riconoscersi, per chi allora nello zaino aveva la “Lettera a una professoressa” di Don Milani e i discorsi di Martin Luther King, nella rivolta di quei coetanei contro le angustie e le ingiustizie del lavoro in fabbrica e nella loro denuncia degli stenti dell’immigrazione? Come non condividere l’energia e il coraggio di chi, lasciati paese e famiglia in cerca di un pò di benessere, era incappato nel taglio dei tempi delle prestazioni tipico dell’organizzazione fordista del lavoro? Di chi aveva conosciuto l’umiliazione del “non si affitta a meridionali”, e quel pessimo mondo senza diritti e pieno di diseguaglianze che aveva trovato era, ora, determinato a trasformarlo? Generazioni per tanti versi gemelle, destinate a incrociarsi e a solidarizzare. Ma mentre gli studenti, che in quell’alleanza che prometteva la costruzione di una fase “rivoluzionaria” avrebbero finito con lo smarrire molta dell’originalità e della tenuta culturale e politica del loro movimento, sarebbe stato invece il movimento operaio a trarne un vigore e una vitalità che gli avrebbe consentito di diventare e restare per decenni un protagonista di primo piano della vita sociale e politica del Paese.

 

Anche il Sessantanove operaio, proprio come il Sessantotto degli studenti, pur con tutte le caratteristiche di un’esplosione sociale, aveva alle spalle processi che l’avevano preparato e, in qualche misura, annunciato. Fin dai primi anni Sessanta in tutto il “triangolo industriale”, e anche fuori, si erano moltiplicate tensioni e vertenze, non di rado accompagnate da scontri di piazza. E mobilitazioni che avevano sì al centro la condizione operaia (salari e cottimi, tutele contro i licenziamenti, sicurezza e nocività), ma che si erano più volte estese a temi di interesse sociale più ampio: le pensioni, gli alloggi pubblici, la scuola, la salute.

Dopo le fatiche dei quindici anni della ricostruzione postbellica era finalmente arrivato il boom economico, e i lavoratori che ne erano stati i protagonisti, cominciavano a chiedere il conto. A pretendere il riconoscimento del valore e della dignità del lavoro negata da salari troppo bassi, da gerarchie e divisioni tra operai, tecnici, impiegati, da una ferrea disciplina di fabbrica e da un altrettanto ferreo controllo della produttività, dalla progressiva eliminazione nella fabbrica fordista di ogni forma di intelligenza nel lavoro, dalla repressione delle libertà individuali e sindacali.

La Fiat di Valletta, con i reparti-confino dove venivano isolati i ribelli, gli iscritti ai sindacati non padronali, “i comunisti”, e dove i licenziamenti “per rappresaglia” erano tutt’altro che una rarità (per tutti gli anni Sessanta e Settanta alla Camera del lavoro di Torino c’era un ufficio specificamente dedicato a questa tipologia di licenziamento), era un caso estremo e tuttavia emblematico di una condizione operaia che c’era anche altrove, e che talora poteva essere anche peggiore. Una miscela esplosiva che, negli anni delle prime esperienze di governo di centrosinistra, aveva generato l’esigenza di nuovi provvedimenti normativi; nel 1965 abbiamo le leggi sulle pensioni sociali e di anzianità, sugli infortuni e sulle malattie, sui licenziamenti. Un percorso legislativo che troverà il suo approdo, nel 1970, nello Statuto dei diritti dei lavoratori, ma a cui non si sarebbe arrivati senza lo choc determinante della rivolta operaia del 1969, e del sommovimento sociale e politico che ne seguì (di cui l’alleanza studenti-operai era ovviamente un ingrediente). Uno choc, occorre ricordare, reso più acuto da una situazione di forte e diffuso spiazzamento del sindacalismo tradizionale.

I protagonisti delle lotte in fabbrica dunque avanzavano rivendicazioni che i vertici sindacali apprezzavano poco o niente: gli aumenti salariali eguali per tutti, il superamento di inquadramenti professionali separati tra operai e impiegati, il rifiuto delle gerarchie professionali e del significato/valore stesso della professionalità. Ed inoltre, ricorrevano a forme di lotta troppo aggressive per la mentalità sindacale e politica del tempo, e decise comunque autonomamente. La massima distanza, e la maggiore ragione di attrito, stava nel non riconoscimento delle forme di rappresentanza sindacale che in effetti, in quanto circoscritte ai soli iscritti, non erano affatto inclusive e producevano per di più divisioni tra sigle del tutto inadatte ad assicurare l’unità nella decisione e nell’azione.

Ma lo spiazzamento durò poco. Non senza contrasti interni anche aspri nei sindacati tradizionali di categoria e nelle confederazioni, finì col farsi strada la linea – l’intelligenza politica – di ridurre al massimo la tentazione di fare muro contro muro e di costruire invece, anche con la definizione di ambiti di unità d’azione (e poi, soprattutto nella categoria dei metalmeccanici, anche di unità “organica”) tra le diverse sigle, la capacità di accompagnare la grande forza operaia espressa nelle fabbriche verso risultati duraturi. Dentro il mondo delle aziende e fuori, sui temi del welfare e anche oltre. I rinnovi contrattuali, intanto, con i metalmeccanici a fare da guida (fine dicembre del 1969, nonostante la grande tensione della strage del 12 dicembre a Milano alla Banca Nazionale dell’Agricoltura), e poi tutte le altre categorie industriali ottengono importanti miglioramenti: nella retribuzione, l’inquadramento “unico” per operai e impiegati e numerosi nuovi diritti e libertà, tra cui l’agibilità sindacale nei luoghi di lavoro e il diritto alla contrattazione.

E’ in questo clima che si arriva all’approvazione – con molte opposizioni e distinguo nella sinistra politica, non solo “extraparlamentare” – dello Statuto dei diritti dei lavoratori, che offriva finalmente un quadro migliore per il lavoro dipendente. Seguirono, in tempi ravvicinati e sulla base di questi successi, altri avanzamenti fondamentali, la normativa sulla tutela della maternità, le prime regolamentazioni del mercato del lavoro, le regole sugli affitti e sulle case pubbliche.

Il vento sembrava allora decisamente cambiato. Il movimento operaio e le organizzazioni sindacali conquisteranno, a partire dal rinnovo contrattuale metalmeccanico del 1974, il primo congedo retribuito dei lavoratori dipendenti per il diritto allo studio, minacceranno lo sciopero generale per l’apertura del sistema scolastico alla “partecipazione sociale”, contribuiranno perfino all’istituzione della scuola materna statale, allo sviluppo degli asili nido, al tempo pieno nella scuola elementare. E poi, poco più tardi, all’istituzione del sistema sanitario nazionale. Mentre, negli stessi anni, le confederazioni decideranno la riforma delle rappresentanze sindacali nei luoghi di lavoro, con i Consigli di fabbrica eletti da tutti i lavoratori, iscritti e non iscritti. Un passaggio decisivo per una nuova democrazia sindacale e anche per una contrattazione attivabile oltre che a livello nazionale anche in ambito aziendale.

Progressi e successi che, superata la boa dei primissimi anni Settanta, non furono mai una marcia trionfale, anche se fu indubbiamente una fase che cambiò la faccia del Paese. Fino ai primi anni Ottanta quando, nel vivo di processi di profonda ristrutturazione industriale, ci saranno le prime sconfitte, prima di tutto alla Fiat di Torino, dove “tutto era cominciato”, cui seguiranno stagioni altalenanti ma via via sempre più difficili in cui il sindacato perderà progressivamente forza e capacità di rappresentanza del mondo del lavoro, pur mantenendo in alcuni settori della produzione e dei servizi una presenza importante.

Un sindacato che non riesce più a rappresentare e tutelare su questioni di portata ed interesse generale, che diventa sempre meno capace di coniugare gli interessi dei lavoratori con quelli di tutti e del Paese, sempre più stretto in ambiti difensivi e spesso anche esplicitamente corporativi. Ma questa è un’altra storia. Non solo di sconfitte e di errori che pesano sulle nuove divisioni e debolezze del mondo del lavoro. E’ anche una storia di perdita, per l’intero Paese, di un luogo importante di aggregazione, di crescita culturale e sociale, di partecipazione. Quando il mondo del lavoro diventa più debole, finisce con l’essere più debole –rispetto al mercato, alla finanza, alla politica – l’intera società. Gli studenti del Sessantotto l’avevano intuito, quelli che sono venuti dopo assai meno.

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