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Oggi, cinquant’anni dopo lo scoppio della contestazione – che si pose al centro di un lungo periodo tenendo insieme gli anni Sessanta e Settanta – è importante fare memoria, comprendere cosa è rimasto di quell’anno cruciale. evitando letture ideologiche e parziali

Nel 1967 i Nomadi pubblicavano la canzone, scritta da Francesco Guccini, Dio è morto, che divenne l’inno del ‘68. Se per Nietzsche, l’autore del celebre aforismaDio è morto” quelle parole significavano che Dio, il principio supremo che aveva generato tutti i valori dell’Europa, aveva perso d’importanza con l’avvento della modernità, per Guccini l’espressione stava invece a significare una speranza in un nuovo mondo.

Guccini, con veemenza, si scagliava contro i non valori della società borghese, gli stessi che ancora oggi caratterizzano il contesto sociale e culturale: una “politica che è solo far carriera”, il “perbenismo interessato”, “l’ipocrisia di chi sta sempre con la ragione mai col torto”. Ma la strofa finale è quella che svela il senso profondo di questa canzone: Ma penso/Che questa mia generazione è preparata/A un mondo nuovo e a una speranza appena nata/Ad un futuro che ha già in mano/A una rivolta senza armi/Perché noi tutti ormai sappiamo/Che se dio muore è per tre giorni e poi risorge/In ciò che noi crediamo, dio è risorto/In ciò che noi vogliamo, dio è risorto/Nel mondo che faremo, dio è risorto.

Ho voluto far riferimento a questo testo di Francesco Guccini per iniziare il mio editoriale perché è capace di descrivere il sentimento del ’68, quello che i giovani sentivano e vivevano in quegli anni. La loro voglia di cambiare il mondo.

Per molti il ‘68 ha rappresentato una stagione di ricerca in cui il desiderio di una vita diversa esplose talmente forte che neanche molti dei protagonisti se ne resero conto. “Siamo realisti, chiediamo l’impossibile“, lo slogan che spiccava sui muri di Parigi nel maggio del 1968, era davvero rivoluzionario, sfidava la comune concezione di ciò che è la vita, andava oltre.

La scuola e l’università, il lavoro, la cultura capitalista, la Chiesa, il ruolo della donna, la politica: come movimento di massa, il Sessantotto intercettò i problemi innescati da un mondo che stava cambiando, e con la sua forte carica contestataria mise in discussione molti ambiti della vita sociale. Se le risposte che diede furono in alcuni casi velleitarie o sbagliate, il ‘68 accompagnò comunque quella transizione di civiltà di dimensioni epocali che si sarebbe manifestata appieno solo più tardi.

Oggi, cinquant’anni dopo lo scoppio della contestazione – che si pose al centro di un lungo periodo tenendo insieme gli anni Sessanta e Settanta – è importante fare memoria, comprendere cosa è rimasto di quell’anno cruciale.

Alcune interpretazioni hanno colto nel ’68 solo la lotta per i diritti civili, la liberazione sessuale e la deriva, in Italia, della violenza e del terrorismo. Ma il ’68 è stato soprattutto l’esperienza di una generazione che ha contestato il mondo che aveva ereditato, poiché non corrispondeva più alla realtà.

La scelta di dedicare il nostro approfondimento del mese di giugno al ’68, non è solo dettata dalla ricorrenza dei cinquant’anni ma anche e soprattutto dalla consapevolezza che un evento di così vasta portata ha lasciato un’eredità su cui vale la pensa riflettere evitando letture ideologiche e parziali.

Abbiamo concentrato la nostra attenzione su alcune questioni: quali contraddizioni ha messo in evidenza l’esperienza del ‘68? Dopo il ’68, come è cambiata la società italiana? Quali ambiti hanno maggiormente risentito dell’influsso di questa “rivoluzione”? Quali questioni poste dai movimenti di protesta del ’68 sono ancora da affrontare sul piano sociale, culturale e politico?

Iniziamo con il contributo di Paolo Pombeni (Direttore dell’Istituto storico italo-germanico di Trento e Professore emerito presso il Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università di Bologna) autore del bel libro Che cosa resta del ’68, che sottolinea come sarebbe necessario “riprendere seriamente in mano quella revisione dei parametri della nostra civiltà occidentale che il ‘68 cercò di avviare senza riuscire poi a concluderla in senso compiuto. Il che significa che quel famoso grido “questo non è che l’inizio, continuiamo la lotta!” potrebbe tornare ad ispirare le nostre generazioni, giovani e vecchie, al riparo dai miti tardo-romantici, e invece alla luce della volontà di costruire, con la fatica, la pazienza e l’umiltà necessari, un mondo migliore di quello in cui ci troviamo a vivere”.

Maria Grazia Fasoli (Docente incaricata “ad annum” presso la Pontificia Facoltà Teologica del “Marianum”, già responsabile dell’Ufficio Studi delle Acli nazionali) osserva, ragionando su donne e ‘68, come “la promessa più vera del Sessantotto delle donne può riguardare la possibilità di aprire gli spazi ad una libertà maschile finalmente estranea alle logiche del potere e della violenza. Quanto ce ne sia bisogno, ce lo dice la triste e drammatica cronaca di ogni giorno”.

Mario Capanna (Leader del movimento studentesco del ’68) sottolinea come “di fronte ai pericoli che minacciano la specie umana e la Terra, un altro Sessantotto non basterebbe: occorre qualcosa di più e di meglio, un nuovo, generalizzato (som)movimento delle coscienze, capace di affrontare e risolvere le contraddizioni più lancinanti della contemporaneità”.

Fiorella Farinelli (Esperta di scuola e formativi che collabora con l’Enaip nazionale ed  ex sindacalista Cgil)  ci racconta la stagione dell’autunno caldo sottolineando come “l’alleanza e il mutuo riconoscimento tra gli studenti del Sessantotto e i protagonisti “dell’autunno caldo” – una stagione breve ma intensa che caratterizzò la prima metà degli anni Settanta – nacque dall’innamoramento del movimento degli studenti per la straordinaria radicalità delle loro forme di lotta e per il profilo nettamente egualitario ed antiautoritario dei loro obiettivi“.

Monica Vacca (Psicoterapeuta e psicoanalista, membro della Scuola lacaniana di Psicoanalisi) – il cui contributo verrà pubblicato prossimamente – ragiona sul tema dell’autorità, sul senso della scelta del ’68 di contestare le forme che assumeva l’autorità in quel periodo.

Ernesto Preziosi (Presidente del Centro studi storici e sociali e docente a contratto di Storia contemporanea presso l’Università degli studi di Urbino “Carlo Bo”)  dopo osservato come “nel ’68 il Concilio si era già concluso e aveva aperto una nuova pagina nella storia della Chiesa” cerca di comprendere il “legame tra questo rinnovamento, che investe un po’ tutte le realtà ecclesiali e ciò che si manifesta nella società con la contestazione sessantottina” facendo esplicito riferimento all’esperienza dell’AC, delle Acli e dello scoutismo.

Concludiamo proponendo una parte della relazione conclusiva che Livio Labor – presidente nazionale delle Acli nel periodo del ’68 – tenne a Vallombrosa nell’ambito del XVII Incontro nazionale di studio delle Acli. L’incontro, che si svolse dal 27 agosto al 1 settembre del 1968, aveva come tema generale “Impresa, Movimento Operaio, Piano” mentre la relazione di Labor aveva come titolo: “Realtà italiana e strategia del movimento operaio”.

 

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