Per combattere il cambiamento climatico e la perdita di biodiversità, valori quali sobrietà, equità, solidarietà, devono essere messi in primo piano, tanto all’interno di ciascun paese quanto nei rapporti fra paesi diversi. Ma non solo, occorre anche che si sviluppi: capacità di visione sistemica, consapevolezza dei limiti, del nostro essere parte integrante dell’ambiente e consapevolezza della unità della scienza. La transizione ecologica, e le COP che ne sono parte, deve contenere tutto questo, perché il nostro pianeta è un sistema complesso

La comunità scientifica non si stanca di ripeterci che dobbiamo fare di tutto per azzerare le emissioni nette di gas serra nell’atmosfera entro il 2050. Non è una impresa facile, perché passare dal sistema energetico attuale basato sulle fonti fossili a uno basato sulle rinnovabili non comporta una semplice sostituzione di tecnologie, ma una rivoluzione del sistema produttivo, degli stili di vita, dei valori e un impegno significativo di risorse finanziarie e umane.

In più, la trasformazione deve avvenire a scala planetaria: sarebbe del tutto inutile attuarla solo in una parte del mondo lasciando che altrove si continui a immettere CO2 in atmosfera. Dobbiamo farlo tutti insieme, in un mondo in cui ci sono responsabilità diverse nell’avere causato la crisi climatica e diversi livelli di ricchezza, capacità tecnologica e risorse umane.

Dunque occorre pianificare il percorso di decarbonizzazione distribuendone il carico dei costi e allo stesso tempo trasformando il modello di produzione e consumo. Proprio il contenzioso sul prezzo da pagare (chi e quanto) e la resistenza al cambiamento dell’attuale paradigma economico e culturale sono alla base delle estenuanti trattative nelle varie COP, e quindi nella recente COP26 a Glasgow, e alla loro luce vanno letti i risultati.

Cominciamo dalla pianificazione della decarbonizzazione e alla attribuzione dei suoi costi, cioè da cosa si impegna a fare ciascun paese al suo interno, con quali tempi e, se è un paese ricco, in quale misura deve trasferire risorse a quelli poveri per aiutarli nella transizione.

Il criterio più corretto è quello di distribuire impegno e costi in base a quanto si è responsabili del cambiamento climatico, che è causato dall’accumulo in atmosfera della CO2 emessa fin dall’inizio della rivoluzione industriale, non a quella che si emette oggi. Usando questo criterio la scala delle responsabilità vede gli USA al primo posto, avendo contribuito alla produzione del 25% di tutta la CO2 emessa in atmosfera dal 1751 a oggi, seguiti dalla UE27+UK con il 22%; poi la Cina col 13% e lontanissima l’India con solo il 3%. Una graduatoria che ci dice anche che più si è ricchi più si è responsabili, con l’aggravante che quelli che meno hanno contribuito, i più poveri, patiscono di più gli effetti del cambiamento climatico e sono meno in grado di farvi fronte.

I dati sono inequivocabili, ma i paesi ricchi fanno orecchie da mercante, e così gli impegni ufficialmente presi per decarbonizzare le loro economie sono largamente inferiori a quelli necessari per arrivare ad azzerare le loro emissioni entro il 2050 e, come se non bastasse, hanno disatteso l’impegno, preso a Parigi nel 2015, di trasferire 100 miliardi all’anno ai paesi più poveri.

È evidente che i paesi ricchi non vogliono assumersi le loro responsabilità (il che è a danno anche dei propri cittadini, oltre che del mondo intero), e la ragione principale è la difesa del modello economico attuale, basato sull’economia lineare (produci-usa-getta) e sulla crescita indefinita del PIL – modello che è la causa prima della crisi ambientale, nel contesto demografico che il mondo sta vivendo. Di questo modello le multinazionali sono emblematica espressione e, per cercare di bloccare decisioni che anche lontanamente potessero metterlo in discussione, non a caso esse hanno avuto a Glasgow un ruolo primario esercitando forti pressioni sui governi. Così si spiega la presenza di oltre 500 lobbysti delle multinazionali del fossile; la più grande fra le delegazioni governative ne aveva di meno. E non c’erano solo loro, c’erano anche le multinazionali dell’automobile. Non mancavano quelle della filiera agroalimentare, dalla Nestlé alla Bayer (fertilizzanti e pesticidi), alla Cargill (carni); tutti lì per impedire – e ci sono riusciti – che il settore agricoltura venisse toccato, pur contribuendo per quasi il 25% al riscaldamento globale.

Non è stato difficile per tutte queste aziende orientare le decisioni dei governi, e non solo per il potere che esercitano sulla classe politica, ma soprattutto perché nessuno a Glasgow aveva intenzione di mettere in discussione il modello economico e culturale attuale, se si escludono gli ambientalisti e i rappresentati dei popoli indigeni, che però non avevano alcun potere decisionale. E così fra le novità emerse dalla COP26 ce ne sono state due che mirano a perpetuare l’uso delle fonti fossili: lo sdoganamento della CCS (Carbon Capture and Storage, cioè l’estrazione della CO2 dai fumi della combustione delle fonti fossili e la sua iniezione sottoterra, lasciando a chi verrà dopo di noi un altro problema da risolvere) e il grande consenso sulla forestazione come metodo da usare per assorbire la CO2 emessa, che piace anche perché è sostanzialmente impossibile misurare se quanto in realtà viene assorbito corrisponde a quanto dichiarato.

In sostanza la COP26 non poteva che finire così, e lo stesso le COP che verranno, se non si accetterà di modificare – come larga parte della comunità scientifica chiede da anni – il modello economico-culturale basato sulla crescita senza limiti, sul consumismo, sulle disuguaglianze, sull’economia lineare, sulla prevalenza della finanza sull’economia reale. E inoltre, se questa modifica non avrà luogo, non potranno che fallire tutti i tentativi di invertire il processo di perdita di biodiversità, principalmente causato dall’agricoltura industriale e aggravato dal riscaldamento globale, che rischia di farci catastroficamente piombare nella sesta estinzione.

Affinché le COP abbiano successo, più in generale affinché si fermi e si inverta il degrado ambientale del pianeta, occorre avviarsi lungo un nuovo cammino, basato su fattori tecnico-economici che però finiscono per mettere in gioco valori immateriali; un nuovo cammino che parte dall’economia circolare. Nell’economia circolare i prodotti sono progettati in modo da essere durevoli, riusabili, rigenerabili, riparabili e, alla fine del loro ciclo di vita, facilmente riciclabili. Sono anche progettati in modo che la loro impronta di carbonio e il loro impatto ambientale sia il più possibile ridotto. Il tutto in un contesto in cui sia limitato al massimo l’usa-e-getta e combattuta l’obsolescenza prematura dei prodotti. In questa logica la quantità di rifiuti prodotti è minima.

Dunque gli oggetti devono essere usati il più a lungo possibile, il che lascia meno spazio a quelli nuovi che svolgono la stessa funzione. Meno prodotti da costruire e meno rifiuti, e più prodotti da riparare, manutenere, rigenerare, pochi da riciclare. Si tratta di passare da una economia basata sul continuo aumento della produzione (e della estrazione di risorse) a una economia mista, in cui si riduce la produzione ma aumenta la manutenzione. Cambia quindi anche il mercato del lavoro, offrendo grandi potenzialità per nuove attività e nuova occupazione di più alta qualificazione; ma soprattutto viene minato alla base il pilastro del modello economico corrente: il consumismo.

All’applicazione corretta dell’economia circolare si accompagna l’adozione del principio del limite. I flussi di materiali non rinnovabili e di risorse rinnovabili (quali quelle energetiche e i servizi ecosistemici), devono essere contenuti il più possibile. Il principio del limite, riferito all’economia, si oppone si oppone a quello della crescita indefinita e, riferito ai comportamenti, invoca quello della sufficienza, che a sua volta evoca la sobrietà.

Non stupisce, quindi, che alla COP26 l’economia circolare sia stata del tutto assente dal tavolo delle trattative, pur avendo un grandissimo potenziale di riduzione delle emissioni, perché se applicata correttamente mette in discussione due cardini del modello economico-culturale attuale: la crescita indefinita e il consumismo, ad essa legato.

Ma non basta essere sobri. L’attuazione dell’economia circolare implica la convergenza di due azioni: da una parte il cambiamento degli stili di vita, ed è compito individuale, e dall’altra la creazione delle condizioni affinché questo cambiamento possa essere facilitato, indotto, ed è compito del legislatore. Le buone pratiche devono essere facili da realizzare, sennò restano sempre minoritarie.

Ciò significa, per esempio, che non basta essere motivati a fare riparare un elettrodomestico invece di cambiarlo, se poi la riparazione costa di più perché è difficile da smontare o non ci sono i pezzi di ricambio, occorre una legge che regoli le caratteristiche che il prodotto deve avere; oppure che non basta essere motivati a usare il vuoto a rendere, se si deve andare in giro a cercare chi si riprende il vuoto, occorre che il ritiro del vuoto e il suo riuso venga imposto a tutta una serie di produttori, a partire da quelli delle bevande.

Quanto osservato finora ci suggerisce che la transizione ecologica include non solo lo sviluppo delle tecnologie e delle tecniche che favoriscono l’economia circolare, la produzione di energia da fonti rinnovabili e l’agroecologia al posto dell’agricoltura industriale, ma anche fattori di natura immateriale. Per combattere il cambiamento climatico e la perdita di biodiversità, valori quali sobrietà, equità, solidarietà, devono essere messi in primo piano, tanto all’interno di ciascun paese quanto nei rapporti fra paesi diversi. Ma non solo, occorre anche che si sviluppi:

  • capacità di visione sistemica, perché tutto è connesso
  • consapevolezza dei limiti, perché nulla in natura cresce indefinitamente
  • consapevolezza del nostro essere parte integrante dell’ambiente
  • consapevolezza della unità della scienza, per riaprire il dialogo fra scienze umane e scienze fisiche senza il quale non si può riaprire quello fra uomo e natura.

La transizione ecologica, e le COP che ne sono parte, deve contenere tutto questo, perché il nostro pianeta è un sistema complesso, in cui ogni componente, naturale e antropica, influenza e viene influenzata dalle altre; un sistema in cui natura, economia, politica e cultura sono in relazione strettissima fra loro, con la natura che detta le regole, come è stato chiaramente indicato con il concetto di ecologia integrale nella Laudato si’, proprio lo stesso anno della COP di Parigi.

Non è una impresa facile né che si possa attuare in tempi brevi, ma passi importanti possono e devono farsi subito. Precondizione, affinché la transizione abbia luogo, è la formazione dei giovani in modo che siano portatori dei valori, delle capacità e delle consapevolezze occorrenti, e sappiano lottare per costruire e mantenere una società in armonia con la natura, e questa formazione non può che avere il suo fulcro nella scuola.

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