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Se è delle donne lo sguardo più attento sui volti, quello della ‘cura’ e dell’accoglienza, credo che la speranza non sia un tema ma piuttosto un compito per il quale molto c’è da attendersi da una loro più piena partecipazione alla vita sociale, economica e politica. La speranza come motore per una compiuta umanizzazione o ri-umanizzazione della nostra convivenza e del nostro sistema di relazioni, comprese quelle che riguardano il nostro pianeta e il suo, cioè nostro, futuro…

Una donna sospesa in volo

Volendo rappresentare la speranza in una formella del battistero di Firenze, Andrea Pisano, nel 1329, ricorse all’immagine di una donna alata con le braccia protese verso l’alto. Non nell’atto di volare, dunque, ma in quello di spiccare il volo. Non la speranza in atto, ma la speranza in potenza. Come desiderio e come tensione.

L’immagine colpì E. Bloch, uno dei più famosi filosofi del Novecento, che sulla speranza costruì una teoria nel suo libro “Il principio speranza, scritto nei decenni più cupi del secolo scorso (tra il 1937 e il 1948, pubblicato nel 1954).

Dunque, la Spes è donna? Non solo come sostantivo femminile, ma anche come sostanza ideale?

Non si vuole cadere nella trappola del fondamentalismo di genere, o della mitizzazione del femminile, che ne è una variante. Si vuole piuttosto assumere la parzialità del punto di vista delle donne per riflettere sul continente-speranza e sui suoi territori, o meglio sulle sue molteplici dimensioni. Siamo convinti infatti che si tratta di una prospettiva feconda a partire da una sorta di analogia strutturale tra soggetto (le donne) e oggetto (la speranza).

Entrambi infatti hanno a che fare con l’inedito, con ciò che è imprevisto. Le donne sono il non-ancora della storia umana, l’inesplorato, la risorsa potenziale. Anche quando appaiono sulla scena della storia, come è avvenuto soprattutto a partire dal Novecento (che qualcuno ha definito, forse con eccessivo ottimismo, “il secolo delle donne”), sono costrette a farlo con uno scatto di destrezza, incuneandosi nelle maglie rotte di un ordine (politico, sociale, economico) che non le prevede. Basta una qualunque istantanea delle riunioni dei ‘Grandi’ della terra per accertarsi del loro scarso numero, in un parterre a dominanza maschile.

Non s’intende assumere tuttavia l’ottica vittimistica –che spinge alla rassegnazione e alla recriminazione- ma piuttosto quella del paradosso. Perché è proprio questa marginalità o addirittura esclusione a renderle portatrici della speranza come forza di cambiamento.

Cambiare il mondo, ‘mettere al mondo il mondo’ (per usare un’espressione cara al pensiero della differenza) con l’energia trasformatrice della speranza: se questo è il senso più vero e fecondo della riflessione che vogliamo a più voci condurre su questo spazio di confronto, non c’è dubbio che questa energia si sprigiona non solo dai soggetti ma anche e soprattutto da relazioni convertite alla speranza. Convertite, cioè fatte convergere sul principio-speranza, per dirla con Bloch. Relazioni fondamentali a partire da quella tra uomini e donne, nella quale si sperimenta al massimo grado la fatica e la bellezza delle differenze. E’ in questo spazio aperto che si conosce quella che con bella espressione (N. Fusini) è detta la “fratellanza inquieta” tra donne e uomini. Infatti, non c’è libertà autentica che non nasca dal riconoscimento dell’altro/a, dal valore riconosciuto dei legami, delle appartenenze reciproche e dinamiche. Penso che qui si colloca il contributo specifico che il punto di vista femminile può dare ad un pensiero condiviso sulla speranza.

Non ci possiamo nascondere lo ‘stato dell’arte’ in questo campo. La speranza non va confusa con il facile ottimismo, magari indotto dall’euforia della società dei consumi.

La violenza generata dalle difficoltà e dalle turbolenze dei rapporti tra uomini e donne, dalla spesso drammatica incapacità dei primi a tollerare la nuova soggettività femminile, è sotto gli occhi dei tutti. Proprio qui, a mio avviso, c’è da ‘spiccare il volo’ per un vero salto di qualità nella cultura collettiva. La ‘mossa’ delle donne nella direzione di una completa conquista della loro dignità deve essere accompagnata da una nuova, inedita rappresentazione maschile, lontana dagli stereotipi e dalle banalizzazioni, per non dire mercificazioni dell’immagine femminile.

La speranza come ontologia del non-ancora ha su questo terreno una sfida decisiva per il futuro del mondo e delle nuove generazioni. Una sfida che è perciò anzitutto educativa, che parte dalla famiglia e dalla scuola, dai modelli espliciti e impliciti che sono veicolati, ma che coinvolge l’intera società come comunità educante.

Senza questo mutamento nella micro-fisica delle relazioni quotidiane, la speranza è una dichiarazione di principio, destinata a restare un alibi gigantesco perché nulla cambi.

 

Dall’alto e dal basso

Dono e virtù. La speranza si muove tra queste due dimensioni. Trascendente e immanente, evento e costruzione. Ha a che fare con il pensare in grande e con “il poco che dipende da me” (S. Teresa d’ Avila). Si accoglie e si impara.

La dottrina cristiana ci parla della speranza comevirtù teologale”, espressione a pensarci bene quasi ossimorica. Virtù infatti rinvia (già nel pensiero di Aristotele) all’esercizio umano di un’abitudine perseverante, teologale ci spinge nei territori del mistero da contemplare e attendere.

Comunque la si pensi, anche chi non si muove in un’ottica credente, ha esperienza di una luce che viene dall’alto, e irrompe spesso nelle nostre vicende, a riaprirle al futuro. Evochiamo ancora una passo di Bloch quando cita un proverbio cinese: “Alla base del faro non c’è luce”. Bisogna staccarsi da terra per guadagnare la luce, i cui raggi poi di nuovo si piegano per illuminare il paesaggio circostante.

In questo doppio movimento, dall’alto al basso, dal dono della speranza alla responsabilità dell’azione, cogliamo il senso più vero di quello che intendiamo per utopia incarnata. Il pensiero relazionale è quello che meglio ci può guidare in questo percorso. Si sogna da soli, si spera insieme agli altri. Questa consapevolezza fa giustizia delle utopie astratte, delle false attese (che sono sempre impugnate dai falsi profeti) che impediscono alla speranza di fare luce sui “possibilirealizzabili”. Di diventare una virtù politica capace di indicare il “cosa” e insieme il “come”, con un esercizio di intelligenza della realtà che non si lascia imprigionare dai suoi confini, perché è capace di vederne le potenzialità, il suo “di più”.

Lo sguardo rasoterra di chi ascolta i bisogni e insieme la visione lungimirante di chi non si rassegna al diktat del presente: credo che sia questa la doppia prospettiva che ci viene chiesta in questo tempo così tumultuoso e turbolento. La materia di cui sono fatti i sogni, per parafrasare Shakespeare, è la speranza incarnata. Anzitutto nei volti che incontriamo e che ci interpellano nel loro valore non aggirabile e non mercificabile.

Se è delle donne lo sguardo più attento sui volti, quello della cura e dell’accoglienza, credo che la speranza non sia un tema ma piuttosto un compito per il quale molto c’è da attendersi da una loro più piena partecipazione alla vita sociale, economica e politica. La speranza come motore per una compiuta umanizzazione o ri-umanizzazione della nostra convivenza e del nostro sistema di relazioni, comprese quelle che riguardano il nostro pianeta e il suo, cioè nostro, futuro.

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