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“Continua a tormentarmi una domanda, che in realtà è l’espressione di un vuoto: il gioco vale davvero la candela? Vale la pena combattere? Non bisognerebbe semplicemente prendere ciò che la vita ha da offrire e basta? Probabilmente dietro c’è una domanda ancora più banale: chi ti ringrazierà per aver lottato o, senza mezzi termini, a chi importerà? Dio, senza dubbio, e queste parole che sgorgano improvvise dalla mia piccola stilografica mi riempiono di umile forza. Forse queste parole – Dio ti ringrazierà – saranno la mia salvezza” (Etty Hillesum)

Esserci o non esserci

La terra ha 4 miliardi e mezzo di anni: sono così tanti che facciamo fatica ad immaginarli! Ma se proviamo a riassumere tutta la sua storia in un anno solare, forse potremmo capirla meglio e comprendere anche quale è stato, ed è ancora oggi, il nostro ruolo nel creato. La prima forma di vita ad apparire, siamo circa a marzo, sono i batteri. I primi vertebrati, forse dei pesci ossei, fanno capolino attorno al 20 novembre; mentre i dinosauri arrivano, alla spicciolata, più o meno a metà dicembre. La nostra intera evoluzione umana, dall’Australopiteco all’Homo Sapiens, sta tutta nelle ultime dieci ore del 31 dicembre. I tempi storici stanno in un niente. Le piramidi, l’Impero romano, Leonardo e Napoleone, scorrono a una velocità vorticosa negli ultimi secondi prima della mezzanotte e, in quest’ultimo fotogramma con lo spumante in mano, noi.

Questa storia, utilizzata nella divulgazione scientifica, nella sua semplicità risolve alla radice il problema del nostro egocentrismo e ci pone alcune domande di senso: il mondo senza di noi potrebbe continuare ad esistere? La risposta è sì, senz’altro.  Ma cosa sarebbe un mondo senza umanità, senza le nostre parole, i nostri racconti, la nostra dirompente esistenza? Difficile da immaginare, perché tutti noi viviamo della nostra esistenza e facciamo molta fatica ad uscire da ciò che siamo e dalla nostra centralità.  In questo mondo viviamo, gioiamo, piangiamo e siamo stati noi umani a portare in questo mondo, con la nostra razionalità, cambiamenti e trasformazioni epocali, nel bene e nel male. Quanto questa evidenza si traduce in coscienza, impegno, responsabilità verso il creato e l’umanità tutta?

Pensare bene

Per rispondere a queste domande dobbiamo sforzarci di pensare bene: una facoltà che non dobbiamo mai perdere, né dare per scontata. Questo nostro tempo manifesta, con particolare evidenza, gli effetti positivi della razionalità umana e dei diversi modi di esercitarla. Ma contemporaneamente si dimostra incapace di fare sintesi (cioè di trovare un punto di contatto tra tesi ed antitesi), così che ogni aspetto della razionalità – mi verrebbe da dire della vita in generale – sembra convivere con il suo contrario. Accanto allo studio, l’ingegno, il pensiero critico, l’intuizione creativa di soluzioni alternative ai problemi coesistono, talvolta stridendo e inasprendo i conflitti e le lacerazioni sociali, il razionalismo – cioè la sopravvalutazione della razionalità -, lo scetticismo, il pessimismo, il complottismo, sino alla follia. Eppure, anche in questo contesto continuiamo ad assistere, commossi, all’affascinante sguardo sul mistero, con tutta la sua inesauribile possibilità di ampliare la mente e gli orizzonti del pensiero fino alla fede o almeno alle domande sul senso della vita e dell’esistenza.

Le contraddizioni abitano la nostra quotidianità: ce ne accorgiamo in ogni ambito del vivere, così che la realtà e la ricerca della verità ci appaiono come cammini difficili e molto impervi. Siamo ammirati davanti alle grandiose possibilità dischiuse dallo sviluppo delle scienze e della tecnologia ma, nello stesso tempo, siamo confusi quando ci vengono fornite narrazioni e ragionamenti diametralmente opposti sui medesimi fatti – ne abbiamo tante evidenze in questi anni -. Ed infine, constatiamo con amarezza, la povertà di pensiero che affligge vari ambienti della vita personale e collettiva. È per tutti questi motivi, per il contesto fatto di guerre, pandemie e social impazziti nel quale siamo immersi, che è particolarmente urgente pensare bene. Perché non possiamo dimenticare che l’umanità, anche grazie alla razionalità, ha generato guerre, inquinamento, conflitti, mutazioni climatiche. Prodotti della razionalità che stanno trasformando il mondo in un luogo pieno di pericoli, insidie ed incertezze. Un mondo in trasformazione che ci preoccupa!

Ma la ragione ed il pensare bene possono aiutarci e soccorrerci perché sono molto di più di semplici facoltà: sono il nostro destino!  Tutti noi vogliono appassionatamente e tenacemente conoscere e capire perché stiamo al mondo. Se c’è un perché, e cosa ha senso fare mentre si vive, che ragione e che fine ha tutto ciò che esiste. La domanda di fondo è poi sempre la stessa: la vita umana ha un senso? Siamo venuti al mondo, scusate la forzatura, come spazzatura in una discarica o per un fine? E se questo fine esiste è singolare o plurale? Mio o di tutti?

 

Dall’indignazione alla dignità

Noi non siamo nati per essere soli. Siamo immersi nelle relazioni fin dal nostro concepimento e tutta la nostra vita è avvolta, determinata e condizionata dalla vita degli altri: nessuno escluso! La nostra natura è relazione. Questa verità, per quanto culturalmente determinata – sappiamo bene quanto il vento dell’individualismo abbia soffiato forte negli ultimi decenni nel nostro mondo cosiddetto civile -, non ha mai perso totalmente la sua forza. Siamo felici quando stiamo bene con gli altri. Siamo infelici quando le relazioni ci feriscono. Due semplici verità che credo tutti noi abbiamo provato e proviamo. Nella loro essenza ci fanno capire quanto sia importante per tutti noi costruire un mondo dove la relazionalità, che poi si traduce su come io mi comporto con te e come tu ti comporti con me, sia improntata al rispetto e al riconoscimento del valore dell’altro che poi, alla fin fine, sono io. La vita, proprio per questo motivo non è mai un bene esclusivo. La dimensione relazionale ci anticipa e ci impone di disporre il nostro sguardo allargandolo oltre la nostra esclusiva individualità.

Lo sguardo è infatti il primo elemento che dobbiamo affinare per pensare bene, proprio perché la vita degli altri mi tocca, mi interessa, mi coinvolge perché in parte è anche la mia vita. E la prima azione da fare è non distogliere lo sguardo. Non pensare che ciò che capita all’altro non mi riguardi, perché è guardando l’altro che io imparo a guardare me stesso e a comprendere la realtà che mi circonda.

Una cascata di capelli biondi e uno zainetto vintage sulle spalle. Laura ha lo sguardo deciso e nello stesso tempo fragile. Non lo dire, per favore Erica. Non lo dire che sono sfortunata! Io … mi sento fortunata. Sto facendo proprio quello che mi piace. Si, è vero. Ho quasi trent’anni. Ad andarmene da casa … si, ci penso. A dire il vero ci penso e mi piacerebbe molto. Poi ci ripenso … ma so bene che non lo posso proprio fare! Prima mi sono laureata in psicologia, ho fatto la triennale. Mi piaceva tanto capire come funziona la mente umana, la psiche. Io sono una sportiva. Ed ho pensato che mente e corpo vanno assieme ed ho deciso di iscrivermi a fisioterapia. Si. In questi anni ho sempre lavorato. In piscina come istruttrice. La sera. Il sabato e la domenica. Del resto, non potevo gravare troppo su mia madre che anche lei fa fatica a sbarcare. Stiamo bene, eh! Non ci manca niente! Ma non navighiamo nell’oro. Mi sono laureata. La migliore del mio corso. Una grande soddisfazione! Questi studi mi hanno proprio aperto la mente ed ho scoperto che sono la mia strada: quello che vorrei fare. Mi hanno offerto di entrare in un progetto in un ospedale per bambini. Bellissimo! Una proposta interessantissima, anche se difficile. Guadagnerò bene … per qualche mese … e poi i progetti finisco … adesso me la voglio godere questa opportunità … nel frattempo mi sono iscritta alla biennale di psicologia, così concludo anche quel percorso. Nel frattempo, starò ancora con mamma … lei non mi butta certo fuori di casa!

Quanti giovani oggi vivono questa realtà? Sommersi dai master, dalle lauree brevi o corte. Dagli stage e dai lavoretti che iniziano come un passatempo per svincolarsi dalla paghetta famigliare e finiscono col diventare l’unica fonte di reddito per molti anni: con tutto il loro carico di precarietà, inadeguatezza e instabilità. E tutte quelle ragazze e ragazzi la cui vocazione è tesa verso una specializzazione e un lavoro? Il nostro è un paese nel quale il fare sembra antitetico all’essere ed anche il fare è privilegio solo per alcuni che hanno avuto la fortuna di nascere nel nostro nord. Pensate che la maggior parte dei ragazzi e delle ragazze che vivono nel centro sud del nostro paese non hanno di fatto il diritto di accedere all’istruzione e formazione professione.

La domanda è: cosa ne vogliamo fare di questa generazione? Delle tante opportunità decantate che, invece, si trasformano in orizzonti irraggiungibili.

Per pensare bene dobbiamo ascoltare. Azione complessa perché necessita di silenzio, tempo, pazienza, disponibilità: beni preziosissimi in questa società frettolosa che non guarda in faccia a nessuno perché non ha tempo. Sostare ed ascoltare, invece, sono le azioni basilari per la realizzazione di ogni azione sociale di senso, capace di risponde alle molteplici domande che la vita ci pone. E sappiamo bene quanto la vita sia ricca di bellezza e di speranza ma anche di dolore.

Miriam ha cinquant’anni: una donna. Capelli corti, gambe lunghe ed una camminata incerta. La cosa che più attira e colpisce è lo sguardo, il sorriso e l’evidente rossore che le ricopre le guance. Suo padre non sa più a che santo votarsi. È un uomo dritto, seppur anziano, e i suoi occhi scuri raccontano di una persona abituata a  fare, a lavorare. Non è piegato, ma è stanco. Gli anni si fanno sentire. Sua figlia, la sua Miriam, vive ancora con loro. Lo sa. Lui lo sa bene che non la può lasciare. Ma sa anche che, alla fine, la lascerà. E non sa cosa fare. Non sa se Miriam ce la farà, se riuscirà a vivere da sola. Sola: questo pensiero lo annienta. Non è la sua morte che lo preoccupa ma è la solitudine in cui lascerà la sua Miriam. È una vita che la sostengono, che la proteggono, la aiutano e la mantengono. Quando lui e sua moglie non ci saranno più, con chi starà Miriam? Non ha le abilità per poter lavorare, se non in situazioni protette. Non ha mai fatto un’esperienza di autonomia. Cosa accadrà della mia Miriam?

Difficile trovare parole per rispondere a queste domande. Così come Miriam, sono tante le persone in questa situazione grigia il cui perimetro si misura in una percentuale: il fatidico 75%. Se non lo raggiungi non puoi usufruire di diversi servizi. Un numero che è un limite ed una condanna che spesso lascia le famiglie sole di fronte alle scelte ed alle difficoltà. Miriam ci ricorda che le storie degli altri sono anche nostre e non possiamo prescindere da quanto ci impegnano: perché hanno il merito di farci comprendere quanto sia importante illuminare, con la passione e la compassione, il cammino collettivo verso una vita buona per tutti. Imparare a stare, a sostare dentro queste storie, è una azione politica, capace di cogliere l’essenza e non l’emergenza, dei bisogni che abitano l’umanità: in particolare quella più fragile e meno protetta.

Mi chiamo Aron. Ho 16 anni. Sono nato a Milano. Le mie prime parole sono state “azie” e “ciao”. Mamma e papà sono di Scutari. Io queste cose per anni non me le sono chieste. Sono la mia vita. Sono la mia famiglia. Italiani? Albanesi?  In realtà, non saprei cosa dirti. Certo, è una cosa brutta che io non posso fare cose che per i miei compagni sono normali. Sono italiano? Sono albanese? Alla fine, cosa cambia? E invece cambia. Per un periodo sono tornato in Albania ed ho fatto le elementari. Poi sono ritornato in Italia e ho fatto le medie e adesso lo scientifico. Qui ho ripreso a fare calcio e per un anno non ho potuto fare le partite perché non avevo il permesso di soggiorno. È dovuto andare l’allenatore in questura per accelerare le pratiche. Lui voleva che giocassi perché sono abbastanza bravo. E poi non posso viaggiare senza visto. Non è una bella cosa. Io mi vedo qui. Vedo qui la mia vita ed il mio futuro. Italiano? Albanese? Alla fine, cosa importa?

In Italia un milione di bambini e ragazzi è invisibile: stranieri ovunque e comunque. Ragazzi senza cittadinanza, che sono italiani di fatto ma non di diritto, ostaggio di una legge vecchia, la legge 91/1992 sulla cittadinanza, che è stata realizzata prima che nascesse questa generazione. In attesa che questa legge cambi, Aron cresce uguale ai suoi compagni e amici italiani, ma diverso perché diverse sono le opportunità per chi non possiede la cittadinanza. E sua madre mi scrive: “E’ una vita che conosci questi ragazzi, di cosa hai paura Italia?

Per queste storie, per queste persone, ma anche per molte altre di cui non conosciamo i nomi ed i volti ma che ci sono ugualmente care e vicine, abbiamo deciso di mettere a tema, accanto alla dignità le vergogne – tutte quelle condizioni in cui si evidenziano delle ingiustizie…..

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