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L’Europa, grazie agli importanti passi in avanti della Corte di Giustizia Europea sul rapporto tra diritto comunitario e diritto interno, può diventare comunità non solo economica ma anche e soprattutto comunità di diritto e dunque autentica comunità umana in grado di prendersi scrupolosa cura dei cittadini, a partire dalle tutele del lavoro e dai diritti sociali…

Il diritto interno e quello comunitario si sfidano da lungo tempo sul terreno delle materie di competenza legislativa concorrente. E’ vero infatti che la nostra Costituzione, soprattutto agli articoli 11, 35 e 117, ha aperto le porte dell’ordinamento nazionale al diritto comunitario e che il rapporto tra diritto comunitario e diritto interno è informato ai quattro principi per cui: il primo prevale sempre sul secondo se incompatibile, impone la rimozione dall’ordinamento statale delle norme contrarie ai Trattati dell’Unione Europea, è immediatamente efficace nel caso di regolamenti e di direttive c.d. self-executing (cioè, particolarmente  dettagliate) e impone, in ogni caso, ai giudici nazionali un’interpretazione del diritto interno conforme a qualsiasi altra direttiva.

Ma è altrettanto vero che, sovente, riaffiora quel “sovranismo” giuridico, retaggio del principio lasciato in eredità dal diritto internazionale secondo cui “reges superiorem non recognoscentes”, capace di orientare il legislatore nazionale stesso e, in generale, gli interpreti del diritto interno all’idea che entro i confini del nostro Stato debba trovare applicazione innanzitutto il diritto dello Stato.

Ad oggi, non a caso, si registrano a carico del nostro Paese settantuno procedure di infrazione aperte dalla Commissione europea per violazione del diritto comunitario oppure per mancato recepimento delle direttive.

Vittima di tale “sovranismo” è anche il nostro diritto del lavoro che, per tale ragione, ha scontato imbarazzanti impasse sul piano delle tutele in favore dei lavoratori e dei diritti sociali, che nel diritto comunitario del lavoro hanno invece trovato ampia cittadinanza.

Così, ad esempio, è accaduto nel caso dei contratti a termine nella nostra Pubblica Amministrazione, la cui reiterazione può dar luogo soltanto ad una sanzione risarcitoria e non a quella concretamente deterrente cui guarda la Direttiva 1999/70/CE. O ancora, così è accaduto in tema di licenziamenti collettivi la cui procedura di informazione e consultazione sindacale a garanzia dei lavoratori, malgrado le previsioni della Direttiva 95/59/CE, non era estesa ai dirigenti sino al 2014.

Cosi drammaticamente accade nel caso dei gig workers, i lavoratori della gig economy al pari dei riders di Foodora, che, malgrado la grande attenzione riservata dall’Unione Europea alle condizioni di lavoro eque, non godono ad oggi di standard minimi di tutela.

Un quadro a tinte così fosche sollecita dunque due domande. La prima è se esiste un  sentiero che possa  condurre ad  una maggiore effettività nel nostro Paese del diritto comunitario del lavoro e dunque alle tutele in favore dei lavoratori e ai diritti sociali che esso contempla. La seconda è se tale ipotetico sentiero è accessibile anche ai gig workers italiani.

Al primo quesito, non può che rispondersi che un sentiero c’è ed è quello della“costituzionalizzazione” del diritto comunitario del lavoro che la Corte di Giustizia Europea ha tracciato per la prima volta nel novembre del 2018 con la sentenza Bauer e Willmeroth (C – 569/16 e C – 570/16).

Con questa sentenza, infatti, la Corte ha riconosciuto alla Carta dei diritti fondamentali, meglio nota come Carta di Nizza, diretta applicabilità nei confronti dei cittadini europei e, con essa, nel caso specifico, quella del suo articolo 31, in quanto disposizione “chiara, precisa e incondizionata”.

Secondo tale importante disposizione, ogni lavoratore ha diritto a “condizioni di lavoro sane, sicure, e dignitose … diritto ad una limitazione della durata massima del lavoro e a periodo di riposo giornalieri e settimanali e a ferie annuali retribuite” mentre, secondo il precedente e altrettanto importante articolo 30, “alla tutela contro ogni licenziamento ingiustificato, conformemente al diritto comunitario e alle legislazioni e prassi nazionali”.

Nello stesso solco si sono iscritte la sentenza Smith (C-122 del 2017) e la sentenza Egenberg (C-414/2016) della Corte di Giustizia Europea. Ed ancora, il 25 gennaio 2018, nella causa C-96/17 (Vernaza Ayovi), l’avvocato generale Kokott ha  riconosciuto al “diritto del lavoro europeo” non solo una sua autonoma coerenza ma anche un’inedita  identità.

Grazie a tale sentiero,  in altri termini, da un lato, si oltrepassano le insidie del mancato o inesatto  recepimento nel nostro Paese  delle direttive europee in campo di tutele del lavoro e di diritti sociali perché, almeno nei limiti della Carta di Nizza, direttamente applicabili ai cittadini europei.

Dall’altro, si oltrepassano molti degli steccati della competenza legislativa concorrente dell’Unione Europea nello stesso campo e dunque quelli dell’articolo 5 del TFUE (Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea).

In quanto direttamente applicabile, infatti, la Carta di Nizza non è compressa dai principi di sussidiarietà e proporzionalità, secondo cui l’azione legislativa concorrente europea è legittima nella misura in cui, rispettivamente, risulti più efficace di quella nazionale e sia strettamente preordinata al conseguimento degli obiettivi dei Trattati dell’Unione Europea. Se è vero che esiste tale sentiero, allora è ancora vero, per rispondere al secondo quesito, che i gig workers italiani possono, ed anzi devono, accedervi per raccogliere i benefici lungo esso disseminati. Ed infatti, gli articoli 30 e 31 della Carta di Nizza, direttamente applicabile anche ad essi, contempla quelle garanzie necessarie per rendere degno il lavoro, come lo definisce padre Francesco Occhetta s.j. nel suo ultimo volume (Ricostruiamo la politica, San Paolo Edizioni, 2019).

Si tratta del resto delle garanzie su cui l’OIL, sin dal 1999, ha costruito l’agenda del c.d. decent work, delle garanzie  che  fanno pendant con gli articoli 2, 3, 4, 5 e 12 della Carta Sociale Europea e con gli articoli del Pilastro Sociale del 17 novembre 2017 (European Pillar of Sociali Rights proclamato nel Social Summit For Fair Jobs and Growth di Göteborg) e che hanno ispirato: la proposta di Direttiva quadro sulle condizioni di lavoro dignitose in tutte le forme di occupazione (2016/2095 INI), un’ancora inedita Direttiva del 16 aprile scorso, la risoluzione del Parlamento Europeo del 4 luglio 2017 e, infine, la risoluzione del Parlamento europeo del 31 maggio 2018 in risposta alle “petizioni riguardanti la lotta alla precarietà e all’abuso dei contratti a tempo determinato”.

In conclusione, l’Europa, grazie agli importanti passi in avanti della Corte di Giustizia Europea sul rapporto tra diritto comunitario e diritto interno, può diventare comunità non solo economica ma anche e soprattutto comunità di diritto e dunque autentica comunità umana in grado di prendersi scrupolosa cura dei cittadini, a partire dalle tutele del lavoro e dai diritti sociali.

In fondo, come ricordava Jan Patocka, uno dei maggiori pensatori cechi del XX secolo, l’Europa “è nata da questo motivo, vale a dire dalla cura dell’anima”.

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