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Sono dell’idea che la concettualizzazione, ancor’oggi dominante, di Terzo Settore non consente a quest’ultimo di reclamare per sé funzioni che vadano oltre la mera supplenza o il lobbying

Se si vuole, come ritengo si debba volere, che i soggetti della società civile partecipino attivamente alle scelte di natura politica, oltre che a quelle di natura amministrativa, la definizione di ciò che deve intendersi per Terzo Settore è questione che non può essere elusa. Vedo di spiegarmi. La definizione corrente di TS vede questo come la sfera cui afferiscono tutti quei soggetti che non hanno titolo per rientrare né nel mercato (primo settore) né nello Stato (secondo settore). Si noti subito l’asimmetria: mentre la distinzione tra TS e Stato si appoggia su un fondamento oggettivo, quale è quello basato sulla dicotomia pubblico-privato, la distinzione tra TS e mercato postula, per avere senso, che il mercato venga considerato come lo spazio occupato per intero da agenti che sono motivati all’azione dal fine lucrativo. Solo così, infatti, si possono tenere tra loro separati soggetti – pensiamo ad una cooperativa sociale e ad un’impresa commerciale – che partecipano della medesima natura giuridica (quella di enti privati) ma che perseguono obiettivi diversi. Tanto ciò è vero che, negli ambienti anglosassoni, le organizzazioni di cui qui si tratta vengono genericamente indicate con l’espressione di enti non profit, per sottolineare appunto il fatto che la loro specificità sta tutta nel rispetto del vincolo di non distribuzione degli utili.
            Ora, se le organizzazioni della società civile appartengono alla sfera del privato ma non a quella del mercato, vuol dire che la loro ragion d’esistere non può essere ricercata sul piano economico, ma solo su quello sociale. Ecco perché, agli inizi degli anni ’80 del secolo scorso, tali organizzazioni vennero identificate con l’espressione di “privato sociale”. Ebbene, mentre allora tale espressione ha rappresentato fedelmente ed efficacemente la realtà, le cose sono andate progressivamente mutando in seguito all’affermazione in senso quantitativo e alla diffusione su tutto il territorio nazionale, di soggetti imprenditoriali connotati da due elementi specifici. Primo, una organizzazione produttiva del tutto simile a quella delle imprese for profit (e dunque connotata da elementi quali professionalità, produzione di beni e servizi, non erraticità e così via); secondo, il perseguimento di interessi collettivi affatto analoghi a quelli perseguiti da associazioni (di volontariato; di promozione sociale) e da fondazioni (di impresa; di comunità). Si pensi alle cooperative sociali e alle neonate imprese sociali: si tratta di soggetti che stanno nel (cioè dentro il) mercato capitalistico, ma non accettano il fine dell’agire capitalistico che è quello del profitto. In quanto operanti con sistematicità e regolarità nel mercato, tali soggetti sono simili alle società commerciali e dissimili da fondazioni e associazioni; in quanto non mirano al profitto, essi sono simili a fondazioni e associazioni e dissimili dalle società di cui al Libro V del Codice Civile.
            Sono dell’avviso che fino a che non si troverà una sistemazione giuridica adeguata per questi enti, veri e propri Giano bifronte, le difficoltà di cui siamo a conoscenza non potranno essere risolte – difficoltà, si badi, che non sussistono per le associazioni e le fondazioni, cioè per i soggetti del privato sociale in senso proprio. Ora, non v’è chi non veda come la vera novità dell’ultimo quarto di secolo sia proprio l’irrompere nella nostra società di questa nuova tipologia di soggetti imprenditoriali. Associazioni e fondazioni, infatti, esistono da secoli. (Si pensi alle Misericordie e alle varie Confraternite). Ecco perché da tempo vado proponendo di ricomprendere tali soggetti sotto la categoria di impresa civile: il sostantivo dice che si tratta di enti che operano nel rispetto dei familiari canoni del mercato – efficienza; competitività; innovatività; sviluppo -; l’aggettivo dice che il fine perseguito è il soddisfacimento di bisogni collettivi o la tutela di interessi generali. Non penso si possa continuare ancora a lungo a pretendere di costringere la nostra realtà, in rapida evoluzione, entro l’ormai obsoleto schema dualistico del pubblico e del privato.
 
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