La recente cattura del boss Salvatore Lo Piccolo offre alcuni spunti per tornare a riflettere sul rapporto tra mafia e società civile in Sicilia.

Si tratta indubbiamente di una buona notizia: il boss palermitano era, insieme a Matteo Messina Denaro, uno dei pretendenti al “trono” di Cosa Nostra, dopo l’uscita di scena di Bernardo Provenzano. Non si può che tirare un sospiro di sollievo quando le forze dell’ordine e la magistratura riescono a mettere a segno un arresto eccellente, assicurando alla giustizia un capo- clan del calibro di Lo Piccolo.     
Eppure non bisogna farsi illusioni. Sebbene le istituzioni dello Stato abbiano ottenuto dei risultati incoraggianti nella lotta contro la mafia, quest’ultima è tutt’altro che sconfitta. I “padrini” continuano a fare il loro mestiere, esercitando un controllo opprimente sull’economia e la politica siciliana. Basta soffermarsi sull’entrate mensili della cosca guidata da Lo Piccolo (Si veda in proposito l’inchiesta Supermarket mafia, apparsa sull’ultimo numero de “L’Espresso” (n. 46 del 22 novembre 2007): sette-otto milioni di euro, una massa di denaro che, con tutta probabilità, veniva riciclata acquistando immobili e attività commerciali a Palermo e dintorni (nella località di Mondello), oltre ad essere investita nei rivoli dell’economia globale (Dalle prime indiscrezioni filtrate dall’inchiesta, sembra che Lo Piccolo e alcuni imprenditori affiliati a Cosa Nostra facessero transitare il denaro in un conto corrente di una filiale locale della Banca di Lodi, per poi prelevarli in contanti e portarli in Svizzera. Queste risorse finanziarie sono state successivamente investite in attività commerciali in Sud Africa e in Canada).  Ad ogni buon conto, bisogna leggere con attenzione le voci di questo “fatturato occulto”: 2 milioni di euro provenivano dalla raccolta del “pizzo”, la tangente che centinaia di commercianti, professionisti e industriali palermitani (compreso Auchan) erano costretti a versare nelle casse del clan in cambio di protezione; poi c’erano le scommesse clandestine (un giro da ottocentomila euro), le mazzette per gli appalti pubblici nelle aziende municipalizzate (circa 200mila euro alla volta) e, infine, gli affari pseudo-legali nel settore edilizio.
Insomma, il boss palermitano gestiva un’azienda florida grazie a molteplici coperture nel tessuto sociale. Politici, imprenditori, funzionari pubblici e bancari che chiudevano un occhio, per connivenza o semplice convenienza. Il che è di per sé un sintomo negativo: per paura, omertà o tornaconto personale una parte della popolazione siciliana continua ad offrire un consenso tacito alla mafia, assecondando (più o meno esplicitamente) il suo potere. Per questo non basta l’antimafia convenzionale. Gli sforzi profusi da inquirenti e uomini dell’ordine rischiano di essere vanificati dal “muro di gomma” del silenzio e dalle complicità; è arduo immaginare che si possa sgominare la criminalità organizzata senza il contributo di una cittadinanza “vigile”, disposta a battersi per affermare i valori della legalità e della democrazia.
Per fortuna, in Sicilia la società civile è composita. Non tutti i cittadini si conformano alla coercizione mafiosa. Altrimenti non si capirebbe come in quest’isola – culla di civiltà e insieme teatro di mali endemici – si sia sviluppato un vasto movimento antimafia, con una tradizione ormai secolare dietro alle spalle. Questa spinta sociale non va vista solo in chiave di martirio, celebrando gli anniversari di singoli eroi e servitori dello Stato che hanno sacrificato la loro vita per contrastare i capi-bastone. Il testimone ideale di questa lotta coraggiosa è stato raccolto da innumerevoli attivisti che, ogni giorno, escono allo scoperto, riunendosi in associazioni, comitati e gruppi spontanei. Si tratta per lo più di mobilitazione spontanea, che si propone di presidiare le comunità rurali e i quartieri urbani dove i mandamenti tengono in pugno la collettività. La battaglia è dura, perché non è facile opporsi nel quotidiano alla legge ferrea di Cosa Nostra. Malgrado ciò, qualcosa è già cambiato, grazie all’impegno sociale e politico di questi cittadini.
L’ultimo rapporto sull’associazionismo sociale dell’Iref ha analizzato da vicino l’esperienza di questi nuovi militanti dell’antimafia. Mentre Lo Piccolo dirigeva la sua impresa criminale, cinquanta giovani palermitani tappezzavano la città di adesivi che denunciavano l’indegnità di un popolo sottomesso al pizzo. Sono passati più di tre anni da quel clamoroso atto di protesta e l’iniziativa degli studenti di “Addio Pizzo” ha fatto numerosi proseliti. Oggi, quasi novemila consumatori hanno sottoscritto un manifesto nel quale dichiarano di voler acquistare beni e merci soltanto da quei negozianti che si rifiutano di pagare la “tassa dei mafiosi”. Sull’onda di questa domanda di legalità, 165 commercianti hanno deciso di aderire alla rete “Pizzo free”. É nata così una filiera del consumo equo e responsabile, un circuito economico depurato dal vulnus mafioso. Non è un caso isolato quello di Palermo. Nella provincia di Siracusa, col concorso di sindacati, istituzioni locali e associazioni di categoria, si è attivato un network capillare di associazioni antiracket. In sostanza, gli imprenditori e i commercianti si uniscono per difendersi dalle estorsioni degli uomini d’onore. Chi sceglie di sporgere denuncia contro i suoi ricattatori, non è più solo come Libero Grassi. Queste associazioni, accanto ad un’azione pervicace di resistenza sul territorio, si costituiscono parte civile nei processi, facendo sentire la loro vicinanza all’operatore economico che ha puntato l’indice contro gli estortori. Spostandosi a Catania, vi è un gruppo di persone di buona volontà (il Gapa – Giovani Assolutamente Per Agire) che, da quindici anni, “abitano” il quartiere di San Cristoforo, togliendo dalla strada i bambini che vengono arruolati precocemente nelle fila di Cosa Nostra. Nel cuore di quello che un tempo è stato il feudo di Nitto Santapaola, in un contesto di degrado e povertà, questi irriducibili volontari hanno recuperato un edificio fatiscente, facendolo diventare “la Casa del quartiere”: un luogo ospitale dove i “carusi” possono studiare e costruirsi un futuro diverso, sfuggendo dalla delinquenza.
Come si vede, nella società si riproducono degli anticorpi che rinforzano il tessuto civico e rinvigoriscono la lotta contro la mafia. Le esperienze esaminate nel Rapporto sull’associazionismo sociale non sono delle oasi nel deserto. Molte altre iniziative solidali affiorano dal caleidoscopio siciliano, a partire dal lavoro irrinunciabile dell’Associazione Libera, che in questa regione ha messo in cantiere diverse attività economiche “pulite” con i beni confiscati ai mafiosi. Al di là delle differenze, queste forme di protagonismo dei cittadini possono contribuire al riscatto dell’isola. L’antimafia della società civile può dare un senso compiuto alle parole profetiche del giudice Falcone: «gli uomini passano, le idee restano, restano le loro tensioni morali, continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini». Alcuni attivisti si sono già messi in marcia per diffondere la cultura della legalità. Queste avanguardie militanti debbono essere sostenute. E il modo migliore per valorizzare il loro impegno è quello di non abbassare mai la guardia, senza cullarsi sugli allori di un arresto eccellente.
 
Per coloro che fossero interessati ad approfondire l’argomento, si consiglia la lettura del capitolo Micropolitiche dell’Antimafia, in Cristiano Caltabiano (a cura di), Anticorpi della società civile. L’Italia che reagisce al declino del paese, Roma, Carocci, pp. 141-177. 
rn 
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