Nel clamore del dibattito sulle riforme necessarie di cui avrebbe bisogno il nostro Paese, da quelle costituzionali a quelle dei regolamenti parlamentari, e della possibilità (o meno) di un accordo comune e condiviso tra maggioranza e opposizione, regna, purtroppo, un consapevole e generale silenzio  -direi quasi irreale- su una riforma che procede a passo sempre più svelto verso la sua approvazione definitiva nel 2010: la riforma delle leggi elettorali regionali.

Le regioni, in particolare quelle a statuto ordinario, infatti, sembrano volersi presentare all’appuntamento delle prossime elezioni regionali del 2010 avendo definitivamente chiuso la decennale transizione che dal 2000, cioè dalle prime elezioni regionali dopo l’approvazione del nuovo Titolo V della Costituzione, ha caratterizzato la loro vita.

In questi dieci anni almeno due fasi si possono riscontrare.

Una prima, subito dopo l’approvazione della riforma del Titolo V, che si è caratterizzata come un periodo di cambiamento, apprendimento e –per alcuni, in qualche modo, anche di forzato- adattamento, nel tentativo di assorbire una novella costituzionale che, soprattutto sul piano della forma di governo, introduceva una forma di governo di transizione di tipo primoministeriale, da molti fortemente osteggiata. Questa fase ha visto i Consigli regionali da un lato, dedicarsi ampiamente alla ricerca di una loro “rinnovata” identità, da trovare soprattutto in contrapposizione ai Presidenti delle Giunte eletti direttamente e, dall’altro per tutti i tentativi –falliti- di aggirare questa novella costituzionale attraverso la scrittura dei nuovi Statuti regionali, ai sensi del nuovo art. 123 Cost. Tentativi che, poi, sono terminati, in ragione della sentenza n.2/2004 della Corte Costituzionale che ha impedito un ritorno al passato.

Tale periodo è terminato quindi con le elezioni del 2005, quando in maniera rapida -anche per recuperare il tempo “perso”- buona parte delle Regioni ordinarie (9) hanno approvato i loro statuti e, come nel caso della Regione Toscana, anche una nuova legge elettorale regionale, oltre che una legge ad hoc per disciplinare le elezioni primarie.

La seconda fase, cioè a partire dalle elezioni del 2005, si sarebbe dovuta caratterizzare quindi per la “messa a regime” e il completamento del nuovo sistema regionale, soprattutto attraverso l’approvazione di nuove leggi elettorali regionali, capaci cioè di sostituire la disciplina vigente, ossia la legge 17 febbraio 1968, n. 108 e le sue successive modificazioni, in particolare la legge 23 febbraio 1995, n. 43, cioè la c.d. riforma elettorale “Tatarellum”.

E tuttavia i primi due anni (2005-2007) di Consiliature regionali sono stati pressoché silenti sul tema. Anzi, i timidi tentativi posti in essere dalla dottrina, che in questi anni ha molto pubblicato in tema di Statuti e riforme elettorali, sono stati tutti pressoché ignorati.

Invece, sotto la spinta delle elezioni prossime del 2010 da un lato e, forse, anche del “terremoto” politico-partitico, e poi elettorale, che si è prodotto tra la fine del 2007 e l’inizio del 2008, i Consigli regionali hanno ripreso in mano il tema e hanno iniziato a ragionare sulle modalità attraverso le quali modificare le loro leggi elettorali.

Si è mossa la Regione Lombardia che, dopo la seduta della Commissione Statuto del 20 febbraio, ha ripreso a metà maggio i suoi lavori; si sta muovendo la Regione Lazio, e primi ragionamenti intorno alla modifica della legge elettorale stanno avvenendo nei Consigli regionali di Umbria, Toscana, Emilia e Marche.

Le questioni principali –nell’impossibilità modificare l’elezione diretta del Presidente, se non al prezzo di pagare impopolare e antistorico completo ritorno al passato- ruotano intorno a molte cose: dalla formula elettorale, al tipo di collegi, dalla garanzia della rappresentanza consiliare di ogni Provincia, al regime delle incompatibilità e ineleggibilità, al mantenimento o meno delle preferenze.

E tuttavia il dilemma principale da sciogliere riguarda l’alternativa secca tra mantenere il premio di maggioranza al vincente, valutando conseguentemente se tenere o meno (e come) il c.d. listino del Presidente, oppure se, coraggiosamente e probabilmente con più aderenza rispetto a quanto le indagini demoscopiche sembrano confermare riguardo la distanza tra eletti ed elettori, re-introdurre i collegi uninominali (così come vi era a livello nazionale all’epoca del cd. mattarellum) e dunque favorire una maggiore aderenza tra territorio ed eletti in Consiglio.

D’altronde, il collegio uninominale, pur polarizzando, consente di equilibrare la legittimazione del singolo consigliere regionale rispetto a quella del Presidente; invece il premio, soprattutto col listino, ma anche senza, inevitabilmente squilibra, perché certifica che alcuni eletti vengono trainati direttamente dal solo Presidente, senza ricevere essi stessi un mandato dagli elettori.

Su tutto ciò, comunque, la “grande politica” è silente, ma non assente. Lavora sottotraccia, cercando la c.d. “quadra”, in maniera tale da riuscire a trovare il modo di posizionare se stessa, senza il clamore e la pubblica pubblicità, dopo la “rivoluzione” delle elezioni politiche dell’aprile scorso su una mappa elettorale e uno scacchiere di alleanze, disegnate assai diversamente dalle elezioni del 2005.

Come non comprendere, da un lato, le paure del Pd che, scegliendo nelle Regioni un sistema elettorale che incentivi anche a questo livello la sua vocazione maggioritaria, possa rischiare di mettere da subito in crisi le sue Giunte che ancora vivono sulla base dell’allenza con Rifondazione comunista? Oppure, dall’altro, un Pdl che, nel tentativo di non “lasciare” l’elettorato (e gli eletti…) dell’Udc nelle Regioni, si impegni a mantenere il più possibile “proporzionale” gli assetti, tale da offrire a tutti un diritto di tribuna, senza perdere “pezzi”. E infine, come non valutare che tutto ciò non può essere realizzato se non all’interno di un alveo che consideri davvero e pienamente le pari opportunità?

Insomma, i problemi sono molti e la sfida di allineare l’assetto politico nazionale con quello regionale non è tra le più semplici, soprattutto perché il tempo passa e il redde rationem elettorale del 2010 si avvicina.

E tuttavia, non si può non segnalare un rammarico: e cioè che anche questa volta le Regioni sembrano aver perso la possibilità di fare delle riforme per sé in completa autonomia, senza condizionamenti ed istanze di politica nazionale a fare pressione. Esse confermano essere o non ancora pienamente “mature” per il federalismo pieno e consapevole così come avviene altrove o -come è più probabile- il sistema politico-partitico nazionale è così ancora invadente e rigido, in barba a tutti i partiti nazionali che dicono di strutturarsi o di volersi strutturare su base federale, da soffocare in culla qualsiasi tentativo regionale di aprirsi spazi politici autonomi, in termini di alleanze, strategie, accordi, da Roma.

Nell’auspicio, dunque, che la politica nazionale –in assenza della politica regionale- abbia il coraggio e la voglia di “accendere la luce” del dibattito pubblico nazionale (e dunque anche regionale…) sulla necessità di approvare nuove leggi elettorali in vista delle elezioni del 2010, non ci resta che attendere e…fiduciosamente sperare in bene.

rn

 
 
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