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Le culture umane hanno da sempre sperimentato e conosciuto che la libido dell’eros e la libido del denaro sono due forze molto simili: sono essenziali per la vita e per la crescita delle comunità, ma se non gestite e regolate da istituzioni adeguate e forti fanno precipitare quelle stesse comunità nel caos.

Ciò che vediamo in questo periodo con questa grave crisi finanziaria, economica e morale sono solo i frutti mortiferi di una economia e una finanza lasciate in balia delle proprie pulsioni senza regolazione comunitaria e sociale. Sta accadendo qualcosa di simile a ciò che accadrebbe in una comunità in cui l’intera socialità fosse giocata sul solo registro dell’eros, senza alcun riferimento alla philia, all’agape e alle loro tipiche istituzioni. La libido erotica e quella del denaro sono passioni forti, che vanno educate, gestite e – occorre ricordarlo – controllate, vivendo la bellissima virtù della prudenza, individuale e collettiva.rn

Dopo questa premessa, vorrei soffermarmi su tre aspetti di questa crisi.

Il primo. Ciò che la presente crisi finanziaria sta mostrando è la radicale fragilità e vulnerabilità del capitalismo di terza generazione. Nel sistema economico tradizionale (dalle città medioevali all’Europa moderna) una crisi come quella attuale non era neanche pensabile. In quelle economie il consumo era fondato e legato alla produzione reale. Il reddito dei singoli e dei Paesi era un indicatore molto importante, perché diceva chiaramente e senza equivoci quanto una famiglia e un Paese potevano spendere e investire. Il reddito era il limite naturale del consumo e del risparmio. Il reddito non consumato veniva depositato, spesso (quando esistevano ed erano sicure), in banche dove, grazie all’interesse che il denaro maturava, il valore del capitale non si deteriorava nel tempo. In quel mondo, o capitalismo, le crisi economiche (come quella del ’29) potevano verificarsi solo per una crisi dell’economia reale (soprattutto fallimenti di imprese …), che producevano disoccupazione, e quindi una riduzione del reddito reale. Questo sistema economico tradizionale è entrato in crisi nel XX secolo, con la nascita del capitalismo finanziario, che ha cambiato radicalmente la natura del sistema economico e della nostra vita. Questo cambiamento ha prodotto alcune cose interessanti, ma ad un costo molto alto: ha reso il sistema economico tremendamente fragile. John M. Keynes è stato l’economista che più di tutti ha colto e denunciato, profeticamente (eravamo nel 1936), la natura finanziaria del nuovo capitalismo e la sua strutturale fragilità, un autore che oggi dovremmo tornare a leggere e a meditare profondamente. Le crisi come questa che stiamo vivendo sono quindi la regola, non l’eccezione del capitalismo finanziario, soprattutto oggi quando la globalizzazione amplifica gli effetti delle crisi. L’instabilità e la fragilità sono solo cioè l’altra faccia di un modello di sviluppo che consente ai cento dollari di reddito reale di diventare mille e oltre, senza alcun rapporto tra quel denaro e il lavoro umano. Dovremo abituarci presto alle crisi come questa e ancora più devastanti? Temo di sì, almeno fino a quando questo capitalismo non evolverà in qualcosa di diverso. Nel breve periodo,  però, sarebbe necessario riaprire una riflessione profonda sul capitalismo, che non sia solo di tipo economico e finanziario, ma anche politico e culturale; una riflessione globale e mondiale che è ancora "ferma" agli accordi di Bretton Woods nel dopoguerra. Keynes, che era anche tra i promotori di quegli accordi, era convinto che data la nuova natura del capitalismo occorresse un nuovo “patto sociale”, nuove regole e nuove istituzioni (economico-politico) per gestire questa nuova realtà. IL FMI e la Banca Mondiale sono il risultato, molto parziale e in parte tradito, di quel nuovo patto. Negli ultimi decenni qualcosa si è mosso, e alla fine degli anni novanta la coscienza civile globale stava maturando la convinzione che il capitalismo richiedesse una diversa e più attenta governance. La Tobin tax, e il dibattito attorno ad essa, ha svolto una funzione di catalizzatore di un processo sociale che con il G8 di Genova del luglio 2001 raggiunse il suo massimo. L’11 settembre, poi, ha però deviato per anni l’attenzione della società civile internazionale dai problemi della nuova architettura del capitalismo finanziario, per orientarla sui temi della sicurezza e del terrorismo. Oggi ci accorgiamo che in questi setti anni di "distrazione" il processo è esploso (basta guardare i dati sull’amplificazione dell’indebitamento delle banche in questo ultimo decennio!), e stiamo improvvisamente prendendo coscienza che c’era un’altra "guerra" e un’altra "sicurezza" non meno gravi e urgenti dei controlli-passeggeri agli aeroporti, problemi che incombono minacciosamente sulla "post-economia di mercato" di tutte le famiglie del globo. Questa crisi attuale ci sta dunque dicendo drammaticamente che il "capitalismo finanziario" richiede una nuova Bretton Woods che ridisegni la nuova architettura del capitalismo di terza generazione, se vogliamo che queste crisi non facciano implodere il fragile sistema mondo. Speriamo solo che questi nuovi accordi siano questa volta democratici, che tengano conto seriamente dell’Africa, dell’Asia, e del Sud America.

E veniamo così al secondo punto. Con l’avvento del capitalismo finanziario la banca e la finanza hanno progressivamente mutato natura, trasformandosi sempre più in soggetti speculatori, il cui scopo principale è far profitti (e farne tanti!), smarrendo così giorno dopo giorno la funzione sociale che la banca e la finanza hanno da sempre svolto, e svolgono ancora. Le istituzioni bancarie e finanziarie sono indispensabili nell’economia moderna. Come ho avuto modo di dire anche sull’Osservatore Romano (28.9.08), la grave malattia del capitalismo contemporaneo è invece la progressiva trasformazione delle banche da istituzioni a speculatori. Lo speculatore è un soggetto il cui scopo è massimizzare il profitto. L’attività che svolge non ha alcun valore intrinseco, ma è solo un mezzo per far arricchire gli azionisti e i managers. L’economista Yunus, Nobel per la pace, fondatore della Grameen Bank ricorda sempre che nell’economia di mercato l’accesso al credito è un diritto fondamentale dell’uomo, poiché se questo diritto non è soddisfatto le persone non riescono a realizzare i propri progetti e a uscire dalle tante trappole della miseria. Se questo è vero allora la banca speculatrice deve essere l’eccezione e non la regola dell’economia di mercato, se non altro perché i prodotti che la banca gestisce sono sempre ad alto rischio, e, soprattutto, perché i capitali che essa rischia sono delle famiglie. Sono convinto che una riforma radicale che dovrebbe uscire da questa crisi è la trasformazione delle banche in istituzioni più vicine all’impresa nonprofit che all’impresa speculatrice, se è vero che la banca è un’istituzione che ha un vincolo di efficienza e di economicità, che deve salvaguardare gli interessi di molti soggetti. Non è certo un caso che, dai Monti di Pietà dei francescani del Quattrocento alle banche cooperative, la banca si è pensata anche come impresa senza scopo di lucro, proprio perché tanti erano gli interessi che doveva soddisfare. Ciò che quindi i fallimenti di questi giorni ci stanno insegnando è che la banca è un’istituzione con un grande valore sociale e con una grande responsabilità:  non può essere abbandonata al gioco rischioso della ricerca dei profitti.

E infine il terzo aspetto. Dietro questa crisi c’è anche una crisi morale, che riguarda anche il nostro rapporto con i beni e gli stili di vita. L’indebitarsi (negli USA ma sempre più in tutto il mondo opulento) ben oltre le possibilità reali di reddito, è una forma di doping simile a quella di cui sono preda i “giocatori d’azzardo” della finanza. Indebitarsi per il consumo è atto ad altro rischio, poiché mentre l’indebitamento per un investimento è sano e naturale, fondato sull’ipotesi che se l’investimento è buono il valore aggiunto remunererà anche l’interesse bancario, indebitarsi per vacanze esotiche o case di lusso può essere un atto simile a quello di Pinocchio che, seguendo i consigli del Gatto e la Volpe, seminava denaro sperando di vederlo un domani crescere moltiplicato sugli alberi. Nessuno, ovviamente, vuol negare che entro certi limiti il debito delle famiglie possa essere virtuoso per l’economia e per il bene comune. Ma è ancora più vero che la banca che presta troppo e alle persone sbagliate non è meno incivile di quella che presta troppo poco alle persone giuste. Se banchieri e consulenti finanziari si comportano come novelli Gatto e Volpe, tutti alla fine vivranno, diversamente dalle favole, “infelici e scontenti”.

Un’ultima considerazione. C’è un aspetto importante in tutta questa "bufera" che non viene mai sottolineato dai media. Chi in questi anni ha fatto investimenti etici (in Banca Etica, ad esempio, ma anche in tante banche cooperative) oggi si ritrova con un risultato al tempo stesso etico, economicamente vantaggioso e molto sicuro. Questa crisi sta rimettendo in discussione il sistema degli incentivi e dei valori in gioco, anche puramente economici. Come è avvenuto tante volte nella storia, un cambiamento climatico può determinare l’estinzione di grossi mammiferi e lo sviluppo di organismi più piccoli e agili, che nel precedente clima apparivano svantaggiati. Se questa crisi, nonostante la sua gravità e il grande dolore che sta procurando (i soldi sono importanti quando servono per poter vivere), può servire a dar vita ad un nuovo patto sociale planetario per una economia più etica, amicale e aperta alla gratuità, allora sarà stata una felix culpa. Se invece guardiamo nelle nostre comode case i dibattiti televisivi sulla crisi, alternando le notizie sui crolli di banca all’attesa per le colossali vincite all’enalotto, convinti che la colpa è soltanto dei cattivi Gatto e Volpe di Wall Streat o di Piazza Affari, allora tra qualche mese dimenticheremo tutto, e ci ritufferemo nel doping del consumo. Aspettando la prossima crisi.

rn

 
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