La Corte Costituzionale ha dichiarato l’incostituzionalità, per violazione del principio di uguaglianza e della “riserva di legge costituzionale” in materia di immunità degli organi costituzionali, del cosiddetto Lódo Alfano (“lódo” che non è − non era − affatto un lódo, cioè un pronunciamento di tipo arbitrale, reso a seguito dell’accordo fra due o più parti che all’arbitro devolvono una controversia, ma una legge ordinaria del Parlamento).

S’intendono per «alte cariche dello Stato» (termine coniato da questalegge: di per sé sinora non significava giuridicamente nulla ma era solo un uso gergale, della lingua comune), il Presidente della Repubblica; il presidente del Senato; il presidente della Camera; il presidente del Consiglio dei Ministri. Queste prime considerazioni non vogliono essere un commento alle motivazioni della sentenza della Corte costituzionale, ma soltanto riassumere criticamente il senso della vicenda: in discussione è il contrasto fra la richiesta di tranquillo svolgimento delle funzioni costituzionali − in una situazione storica e contingente nellaquale ciò, a ragione o a torto, non pare possibile − e la tutela dell’uguaglianza di tutti davanti alla legge, senza che l’immunità dalla giurisdizione (penale) possa essere pretestuosamente invocata in modo strumentale per coprire un potere tendenzialmente personalistico e fondato sul sospetto di corruzione (sistemica). La prima esigenza è tutelata solo in parte dalla Costituzione: in sostanza l’unica immunità che la Costituzione prevede è quella legata alla funzione e riguarda il Presidente della Repubblica nonché i parlamentari ma limitatamente alle opinioni espresse e i voti dati nell’esercizio delle funzioni); non sono previste immunità extrafunzionali (ma non si deve dimenticare che il testo originario dell’art. 68 Cost. stabiliva un filtro, cioè la necessità di un’autorizzazione a procedere per sottoporre i membri del parlamento a procedimento penale ed anche nel caso di sentenza irrevocabile di condanna). Ecco perché l’attuale maggioranza ha cercato altre strade. La legge 124/2008 voleva tappare infatti, per così dire, quelli che sono stati ritenuti “buchi” del sistema. Stabilisce che a favore di quattro cariche dello Stato (Presidente della Repubblica, Presidente del Consiglio, Presidenti delle Camere) eventuali processi penali instaurati nei loro confronti sono sospesi per la durata della carica o della funzione (e sorvoliamo ancora qui sui dettagli); e ciò, sia per reati commessi prima dell’assunzione della carica o funzione (dunque necessariamente extrafunzionali), sia per reati commessi successivamente e dunque durante l’esercizio delle funzioni (potrebbero essere allora sia funzionali sia extrafunzionali). Secondo la Corte costituzionale la soluzione percorsa con legge ordinaria contrasta, nella forma, con l’esigenza di prevedere una legge costituzionale; nel merito, con il principio di uguaglianza. Quanto alla forma, le innovazioni incidono su una materia disciplinata dalla Costituzione: in tal senso si può comprendere l’esigenza che fosse necessaria, innanzi tutto, una legge costituzionale; dunque la legge Alfano avrebbe disciplinato indebitamente una materia sottratta alla competenza della legge ordinaria. Questa tesi può convincere senz’altro laddove la Costituzione escluda espressamente l’immunità extrafunzionale, stabilendo regole procedimentali (essenzialmente, l’autorizzazione a procedere) per l’esercizio della giurisdizione: stabilire una sospensione, in fin dei conti, equivale a prevedere, diversamente da quanto stabilisce la Costituzione, un’ immunità processuale. Ma non altrettanta sicurezza potrebbe essere esibita per i casi in cui la Costituzione tace (ad es., sul Presidente della Repubblica quanto ai reati extrafunzionali; ma sembra invero l’unico caso). Quest’ultima incertezza spiega anche, in qualche misura, gli opposti pareri espressi sul punto dalle varie voci (ma con stragrande maggioranza nel senso dell’impossibilità di procedere con legge ordinaria: si veda la dichiarazione “In difesa della Costituzione” del luglio 2008). Peraltro, anche in questi casi non è neppure una questione di forma: in effetti, non sarebbe in realtà ammissibile neppure che una legge costituzionale intaccasse il principio di uguaglianza, pena la mutazione dell’intero patto costituzionale. Fin qui la questione della forma che avrebbe dovuto assumere il provvedimento. Resta, ad ogni modo, la questione della sostanza: la legge Alfano viola o no il principio di uguaglianza, in particolare quando estende l’effetto di blocco del processo ai reati extrafunzionali? Problematica dal punto di vista del merito, secondo me, è però forse più che la previsione dell’immunità processuale in sé e per sé, la sua estensione: le disposizioni della legge «si applicano anche ai processi penali in corso, in ogni fase, stato o grado, alla data di entrata in vigore della presente legge»; il che equivale a inquinare malamente un’esigenza che, in sé, non è così assurda come sembrerebbe (e come la rovente polemica politica porta a esasperare), passando dalla logica della prerogativa a quella del mero privilegio: intollerabile, in altri termini, è l’uso strumentale di un istituto avente rilevanza costituzionale. Ma è questione morale/politica o giuridica? Tirando le somme. Gli strumenti per affrontare un problema che la maggioranza ritiene reale ci sarebbero: è stato ad esempio proposto che sia prevista un’autorizzazione a procedere da parte delle Camere, così come nella versione originaria della Costituzione era previsto, del resto, per i membri del Parlamento, però sindacabile dalla Corte costituzionale (ad evitare abusi delle stesse, propense, come la storia insegna, a proteggere anche al di là della decenza i propri membri). Certo, se anche la Corte finisce nel turbinío dello scandalo politico, la soluzione proposta finirebbe col girare a vuoto. Non si può ignorare, comunque, che una riforma del sistema di “amministrazione della giustizia” sia necessaria: dalla formazione del ceto forense (a partire dal curriculum universitario), passando per le modalità di reclutamento e di progressione di carriera, in particolare, dei magistrati, fino al ripensamento della stessa organizzazione amministrativa (soprattutto con riferimento agli uffici legislativi del ministero); non si fanno riforme a costo zero, ma il costo delle riforme non lo sa determinare nessuno: in Italia manca una vera scienza della Gesetzesfolgenabwägung, della “valutazione delle conseguenze normative”; ci sono certo “valutazioni d’impatto” delle riforme normative, ma mi pare che l’attuale situazione del pianeta-giustizia (ma non solo l’attuale: basterebbe uno sguardo retrospettivo storicamente un poco avvertito…) la dica lunga sulla loro plausibilità. Sta di fatto, però, che invece di procedere con cautela, capacità di visione e responsabilità istituzionale, si è scelta la strada del “muoia Sansone con tutti i Filistei”; la teorizzazione ostinata e rabbiosa di una investitura popolare in spregio delle regole costituzionali e con la totale perdita di senso del concetto di bilanciamento dei poteri (cioè perdita di senso del concetto di tutela delle minoranze): persino un ministro non sprovveduto come Brunetta si prende la responsabilità di tenere in non cale l’incompatibilità con la Costituzione (e con una democrazia non populista né autocratica) di questo appello al popolo, affermando con sovrana tranquillità che sarebbe già cambiata la “costituzione materiale”. Tesi, questa, da chiosare con un sapiente insegnamento della teologia morale: corruptio optimi pessima. Ovviamente la Costituzione, come anche il presidente Napolitano ha detto, non è immutabile; ma è anche vero, come scrive Gustavo Zagrebelsky, che la Costituzione non è una somma di regole autonome l’una dall’altra, che possano essere cambiate a piacimento e in modo puntiforme senza che la pluralità di rattoppi incida sull’identità (e la tenuta) del vestito. Un vestito da sposa − e la Costituzione è l’abito nuziale della Repubblica − sul quale siano fatti rammendi multicolori non è più un vestito da sposa: è una pagliacciata. L’atteggiamento delle forze politiche di maggioranza, per quanto fondate o almeno comprensibili possano apparire certe recriminazioni, è una strada che rischia di portare il Paese verso una deriva peronista, anche per la mancanza di una opposizione capace, coerente, credibile, rinnovata o almeno disposta al rinnovamento – e in buona fede.

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