Solo a partire da considerazioni di ordine teologico e dal ripensamento dei suddetti elementi in chiave anche sociale possiamo tentare di cogliere il significato che le argomentazioni di Benedetto XVI avrebbero sulle realtà politiche ed economiche. Inviterei il lettore a riflettere sulla critica all’individualismo, e si noti quanto essa sia distante dalla spesso incomprensibile analisi che celebri economisti cattolici e non del passato e del presente abbiano svolto sul famigerato homo oeconomicus, raffigurazione di un archetipo antropologico che già autorevoli interpreti come Mises ed Hayek non esitarono a definire “fantoccio” o “fantasma. Dicevamo, dunque, rappresentazione pagliaccesca dell’individualismo metodologico e ignorantemente confusa con il becero egoismo che nulla ha che fare con un rispettabilissimo metodo di analisi scientifico, come appunto l’individualismo metodologico. Anzi, sarà proprio Benedetto XVI a definire teologicamente che cosa i cattolici intendono per individualismo, liberandolo dalla secolare accusa proveniente da tutti coloro che hanno colpevolmente confuso l’individualismo metodologico con l’egoismo, entrambi con il capitalismo ed il tutto con il liberalismo. Le categorie teologiche adottate da Benedetto XVI ci autorizzano a continuare l’opera epistemologica iniziata da Giovanni Paolo II. Benedetto XVI con questa enciclica ha semmai rafforzato quella posizione, individuando nel materialismo l’errore del marxismo (n. 21), nel giustificazionismo (conservatorismo metodologico) l’errore di ogni autoritarismo e totalitarismo (n. 33) e nella cinica indifferenza la morte stesa dell’umanità (n. 43). Infine, Benedetto XVI individua un ulteriore elemento concettuale che egli analizza sotto il profilo squisitamente teologico e che solo teologicamente può essere compreso, sebbene, sempre sotto il profilo teologico, possa gettare luce sull’analisi sociale, si tratta dell’antiperfettismo, da non confondere con il pessimismo sociale (n. 24). Mi sono permesso di indicare alcuni elementi teorici, la cui coerenza è rintracciabile all’interno di un percorso teologico che spesso viene trascurato dagli scienziati sociali per ragioni di opportuna coerenza epistemologica ovvero per opportunistica strumentalizzazione politica. Materialismo, giustificazionismo, indifferentismo cinico e perfettismo sociale sono i grandi mali che la teologia di Benedetto XVI individua come ostacoli alla virtù della Speranza, ostacoli che allontanano l’uomo da Dio. Teologicamente, il metodo è quello personalistico. Benedetto XVI non entra nella secolare disputa sulle scuole politiche, poiché vuole comunicarci qualcosa che le scuole politiche non possono dirci: che il rapporto con Dio si stabilisce attraverso la comunione con Gesù. L’incontro con Gesù avviene lì dove l’asse orizzontale delle fatiche e delle gioie della vita quotidiana incontra l’asse verticale dell’anelito trascendente. Gli economisti parlerebbero di punto di equilibrio, i teologi di “caso serio”, il popolo di Dio da due mila anni parla di “Croce” (n. 28). Già, proprio la Croce è la situazione così umana che Dio ha scelto per assomigliarci e renderci simili a Lui. Non è la presunta grandezza della nostra ragione, né la convinzione di essere in possesso di una conoscenza superiore, ma la capacità di “offrire” i piccoli e i grandi dolori a colui che sulla Croce ha urlato, con dolore, “Dio mio Dio mio perché mi hai abbandonato” e prima di spirare ha sussurrato con Carità, la Speranza che dona la Fede: “Padre nelle tue mani affido il mio spirito”. La Speranza di cui parla la Chiesa cattolica attraverso la pastorale di Benedetto XVI e l’opera di missionari che vivono agli antipodi è la roccia della Fede impressa nella Croce, una Croce impregnata del sangue dei martiri e delle nostre quotidiane tribolazioni. Sarà proprio l’ancoraggio della Speranza nella Fede a distinguere la fisionomia della Speranza cristiana, esprimibile attraverso una funzione superadditiva, dalla speranza fondata sull’uomo, la quale è una funzione meramente additiva; un’aritmetica sommatoria che non potrà mai aver fine. Non è la Speranza di cui ci parla il Vangelo, essa non dipende da quanto possediamo, ma da come decidiamo di spendere i nostri giorni, i nostri talenti e le nostre aspettative; in definitiva, dal loro quotidiano ancoraggio alla Fede impressa nella Croce. La teologia, allora, incontra le scienze sociali sul terreno della prospettiva antropologica. Su questo punto, l’attuale Spe salvi delinea la continuità con il percorso conciliare nel quale viene espresso che Dio, manifestando se stesso in Gesù, manifesta non solo Dio all’uomo, ma anche l’uomo all’uomo. Si consideri come la vicenda di San Massimiliano Kolbe e le ragioni teoriche, politiche ed economiche che fecero di un miniscolo gruppo di operai polacchi in una anonima città sul Baltico il centro nevralgico di una nuova era, al centro della quale si è pensato con originalità e con senso cristiano alla “Speranza che salva”; come nel caso di Padre Massimiliano Kolbe, neppure la più triviale e menzognera delle potenze poté reggere l’oda d’urto della Speranza salvifica.
L’onda d’urto della speranza
L’enciclica Spe salvi andrebbe letta a partire da categorie rigorosamente teologiche; i riferimenti a Rothbard e a Nozick che alcuni amici in questi giorni hanno tentato di intrecciare con le argomentazioni dell’enciclica credo non possano che rivelarsi fuorvianti, in quanto celano le ragioni, la specificità e tanto meno rilevano lo statuto epistemologico dell’enciclica.
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