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Il superamento del bicameralismo paritario è oggi un vero e proprio imperativo costituzionale e di questo, e non di altro, si occupa la riforma costituzionale. Per questo l’idea che il voto sulla riforma costituzionale debba essere orientato contro la riforma elettorale rappresenta un caso di machiavellismo da scrivania poco onesto

Nel referendum costituzionale in calendario per il prossimo autunno, gli elettori saranno chiamati a pronunciarsi sulla riforma approvata in via definitiva dal Parlamento all’inizio di quest’anno. Tale riforma ha ad oggetto una pluralità di questioni: la struttura del Parlamento, il riparto di competenze legislative fra Stato e regioni, il riconoscimento a queste ultime di una voce nel procedimento legislativo statale, la semplificazione del c.d. “millefoglie” territoriale e la correzione della decretazione d’urgenza, al fine di contenerne gli abusi.

Non tutte tali questioni hanno però la stessa importanza. La riforma ha infatti un tema centrale ben preciso: il superamento del bicameralismo paritario. L’Italia è infatti l’unico Paese al mondo in cui Camera e Senato hanno una posizione assolutamente paritaria non solo nell’approvazione delle leggi, ma anche nel conferimento della fiducia al governo. Con la conseguenza – verificatasi in maniera plateale all’inizio dell’attuale legislatura – che è possibile (e, in un contesto in cui non sia adottato un sistema proporzionale puro, anche probabile) che nelle due Camere – elette con corpi elettorali parzialmente diversi e con sistemi elettorali inevitabilmente differenziati fra loro – vi siano maggioranze diverse e magari anche non compatibili fra loro. In situazioni simili è difficile, se non impossibile formare un governo, com’è accaduto all’inizio dell’attuale legislatura, quando si verificò una situazione che fu sbloccata solo con l’«eccezionale» rielezione del Presidente Napolitano e la formazione di un governo di grande coalizione. In casi simili, infatti, si impone la necessità di ricorrere a esecutivi tecnici o di grande coalizione: una pratica, quest’ultima, assai più difficile da noi che in Germania o in Austria e spesso foriera di derive trasformistiche. La riforma affronta in modo ragionevolmente condivisibile questo nodo, stabilendo da un lato che il Governo avrà bisogno della fiducia della sola Camera (come accade in tutti i regimi parlamentari del mondo, con la sola parziale eccezione della Romania, che fra l’altro non è un regime pienamente parlamentare) e dall’altro che il Senato sarà eletto non più dai cittadini, ma dai Consigli regionali, configurandosi, almeno potenzialmente, come una Camera delle autonomie.

Si tratta, dunque, di un impianto riformatore che dovrebbe essere largamente condiviso (in quanto consiste semplicemente nel mettere a norma la Costituzione italiana rispetto agli standards vigenti negli altri regimi parlamentari europei), ma che incontra oggi varie obiezioni, fra le quali, in questa sede, ci pare necessario discuterne una, a nostro avviso fallace, ma ripetuta assai spesso, con il rischio che un errore possa trasformarsi, per pigrizia mentale, in una verità tralatizia.

Questa obiezione ha due “lati”. Il primo lato sottolinea che la riforma costituzionale sarebbe in un certo senso secondaria rispetto alla vera riforma, quella della legge elettorale, che ha preso corpo nel c.d. Italicum (legge n. 52/2015): quest’ultima, ben più che la riforma costituzionale, sarebbe il vero oggetto del referendum costituzionale, in quanto sarebbe essa a caratterizzare la riforma, dandole un significato di fondo: quello di rafforzare indirettamente il Governo.
Il secondo lato dell’obiezione si focalizza sul sistema elettorale previsto dalla legge n. 52/2015, che, garantendo in ogni caso la formazione di una maggioranza (e quindi di un Governo) la sera stessa delle elezioni, produrrebbe una intollerabile concentrazione di poteri nel circuito governo-maggioranza parlamentare, che sarebbe capace di stravolgere ogni contrappeso (e quindi, secondo alcuni, di stravolgere la democrazia aprendo la via ad un regime autoritario).

L’obiezione ora ricordata include in sé elementi condivisibili, sia nel primo che nel secondo dei suoi due lati. Non si può infatti negare né che la riforma elettorale sia connessa con quella costituzionale, né che la riforma elettorale presenti difetti, alcuni dei quali di una certa gravità. Ma l’obiezione ora proposta porta questi due argomenti troppo avanti, giungendo a conclusioni del tutto inaccettabili. Vediamo perché, sia con riferimento al nesso fra riforma costituzionale e riforma elettorale, sia riguardo alle caratteristiche della riforma elettorale, cominciando da queste ultime.

Riguardo al contenuto dell’Italicum, non si può negare che vari suoi profili siano discutibili. Si pensi all’apriorismo ideologico che sta dietro alla pretesa di costruire un sistema elettorale capace di produrre un “vincitore la sera delle elezioni”; alla previsione del voto di preferenza, ma limitato al solo capolista; all’effetto deformante sulla distribuzione dei seggi nei vari collegi prodotto dall’attribuzione di un premio di maggioranza potenzialmente assai ampio; alle candidature multiple (vale a dire alla possibilità per una persona di presentare la sua candidatura in diversi collegi), che renderebbero poco trasparente il rapporto fra l’elettore e la lista per cui sta votando.

Nel complesso, inoltre, la riforma elettorale ha mancato l’obiettivo di un rinnovamento della rappresentanza, o, meglio, ha tentato di realizzarla solo mediante la legittimazione diretta del governo, mentre quello di favorire la formazione di una maggioranza parlamentare coesa è un obiettivo di elevato pregio costituzionale, ma non è l’unica questione oggi rilevante che una legge elettorale deve affrontare.

Ma anche riconosciuto tutto quanto appena detto, da cui deriva la necessità di mantenere più che mai aperta la questione elettorale, è inaccettabile l’obiezione aprioristica e semplicistica che si suole rivolgere al c.d. Italicum, ricordata sopra, vale a dire quella secondo cui essa produrrebbe una concentrazione abnorme di potere in modo da stravolgere l’equilibrio fra i diversi organi costituzionali. Il problema non sta qui, anzitutto in quanto la società italiana (prima ancora che il sistema istituzionale) è caratterizzata dall’esistenza di una vasta gamma di soggetti contromaggioritari e di veto players che rendono irrealistica qualsiasi ipotesi di una neo-tirannide sotto mentite spoglie democratiche. Tutti i contrappesi oggi esistenti – simili a quelli esistenti nelle altre democrazie consolidate – restano infatti intatti. A meno di non ritenere che tutte le democrazie contemporanee, salvo l’Italia, siano democrazie autoritarie, l’obiezione sulla democraticità dell’assetto prodotto dall’Italicum è priva di senso.

Del resto non è giustificato neppure il parallelismo, da taluni proposto, fra il combinato disposto della legge elettorale e della riforma costituzionale e l’assetto delineato nella riforma costituzionale del 2005, voluta dal Governo Berlusconi e respinta nel referendum costituzionale del 25-26 giugno 2006 (e che Leopoldo Elia definì incisivamente “premierato assoluto). Da un lato, infatti, il regime politico italiano, anche se modificato dalla riforma costituzionale e da quella elettorale, resterebbe sicuramente di natura parlamentare, senza alcuna alterazione al rapporto fra corpo elettorale, Camere e governo delineato attualmente in Costituzione. Dall’altro la riforma costituzionale non incide in alcun modo né sui poteri formali del Presidente del Consiglio, né sul rapporto fiduciario (tranne che per l’esclusione del Senato da tale rapporto), né sul potere di scioglimento delle Assemblee parlamentari (anche qui salvo che per la soppressione del potere presidenziale di scioglimento del Senato), come invece accadeva – fra l’altro in maniera piuttosto sgangherata – con la riforma del 2005-06.

Riguardo al nesso fra la riforma costituzionale e quella elettorale, si deve invece sottolineare un dato di per sé evidente, vale a dire che la decisione che gli elettori italiani sono chiamati a prendere nel referendum confermativo in calendario dopo l’estate riguarda solo la prima e non la seconda. E’ vero, infatti, che la riforma elettorale è connessa alla riforma costituzionale e, anzi, la presuppone, ma non è tuttavia vero il contrario: se la riforma elettorale presuppone la riforma costituzionale (in particolare presuppone che il Senato non sia più eletto a suffragio universale e diretto e che non sia più chiamato a conferire la fiducia al Governo), la riforma costituzionale è di per sé sensata anche con un sistema elettorale diverso, meno curvato sull’esigenza di produrre un vincitore la sera delle elezioni. Anche con un sistema di questo tipo (ad es. con un sistema elettorale simile a quello tedesco, o a quello spagnolo, o anche con un ritorno alla legge Mattarella) sarebbe infatti necessario superare il bicameralismo paritario, al fine di evitare la possibilità (per nulla astratta anche con tali sistemi) che nelle due Camere vi siano maggioranze fra loro divergenti, in grado di paralizzare la formazione del governo. Il superamento del bicameralismo paritario è oggi un vero e proprio imperativo costituzionale e di questo, e non di altro, si occupa la riforma costituzionale.

Per questo l’idea che il voto sulla riforma costituzionale debba in realtà essere orientato contro la riforma elettorale rappresenta un caso di machiavellismo da scrivania, che pare intellettualmente poco onesto. Il giudizio che i cittadini italiani saranno chiamati a dare dopo l’estate, nel referendum confermativo, è limitato alla riforma del bicameralismo, del riparto di competenze fra Stato e Regioni e dei costi delle istituzioni e non è esteso alla legge elettorale. Non mancheranno altre sedi per proseguire la discussione sulla legge elettorale, che appare destinata a rimanere aperta e che, inoltre, in caso di entrata in vigore della riforma costituzionale, potrà essere sottoposta ad un controllo preventivo di costituzionalità su iniziativa delle minoranze parlamentari.

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