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Sono pochi i critici della riforma costituzionale che si spingono ad affermare che i suoi principali oggetti – il bicameralismo perfetto e la messa a punto del riparto della funzione legislativa – non necessitino di alcuna revisione. E’ utilie allora rievocare le diverse terapie proposte per comprendere se davvero questa  riforma sia un corpo estraneo rispetto alla più recente storia repubblicana

Pochi, pochissimi critici della riforma costituzionale si spingono ad affermare che i suoi principali oggetti – in particolare il bicameralismo perfetto e la messa a punto del riparto della funzione legislativa – non necessitino di alcuna revisione. È cioè diffusa l’opinione che questi ‘pezzi’ della Costituzione non rispondano più alle esigenze della nostra società. Se la diagnosi è tendenzialmente condivisa, ci si divide sulla terapia.

E allora, nei limiti di questo breve intervento, vorrei provare a svolgere un ruolo molto semplice ma spero utile per il lettore non esperto della materia costituzionale: rievocare, in forma estremamente sintetica, tutte le diverse ‘terapie’ proposte fino ad oggi, soprattutto in tema di riforma del bicameralismo perfetto, senza tralasciare le ricadute sul piano del procedimento legislativo.

Partirò dal 1994 perché le precedenti iniziative in materia di riforma costituzionale non mi paiono ancora centrare il tema della riforma del bicameralismo. Prenderò inoltre in considerazione solo le proposte che hanno raggiunto un compiuto grado di formalizzazione.

Il Comitato di studio sulle riforme istituzionali, elettorali e costituzionali (c.d. Comitato Speroni), istituito nel 1994 nel corso della XII Legislatura, elaborò due proposte partendo da una riduzione del numero dei senatori a 200.

Nella prima ipotesi veniva istituita la Commissione delle autonomie territoriali, presieduta da un senatore e formata per un terzo da senatori, per un terzo dai Presidenti delle Regioni e delle Province autonome di Trento e di Bolzano, per un terzo da rappresentanti dei Comuni e delle Province eletti con le modalità stabilite con legge approvata dalle due Camere. La Commissione esaminava i disegni di legge (da ora d.d.l.) nei casi e nei modi stabiliti dalla Costituzione ed esprimeva parere sulle questioni riguardanti i Comuni, le Province e le Regioni.

Nella seconda ipotesi, per l’esame di alcuni disegni di legge il Senato era integrato, in numero pari a quello dei relativi senatori, da consiglieri comunali, provinciali e regionali eletti in ciascuna Regione in numero pari a quello dei relativi senatori. I collegi elettorali erano costituiti dai componenti dei Consigli comunali, provinciali e regionali.

Ad inizio del 1996 vedono la luce la c.d. bozza Fisichella, elaborata da alcuni esponenti del centrodestra e del centrosinistra, che prevedeva la creazione di una Camera delle autonomie, composta da tutte le espressioni dell’autogoverno, con una sistema di selezione misto, in parte poggiante sull’elezione diretta e in parte sull’elezione indiretta, e il c.d. lodo Maccanico, più generico in tema di bicameralismo.

Un anno dopo fu istituita la Commissione parlamentare per le riforme costituzionali (c.d. commissione D’Alema). Come è noto, la Commissione fu istituita con la L.cost. 1/1997 in deroga al procedimento previsto dall’art.138 Cost. e con il compito di elaborare progetti relativi alla Parte seconda della Costituzione.

Orientato alla creazione di un ordinamento federale della Repubblica, il progetto della Commissione prevedeva un Senato composto da 200 senatori eletti su base regionale. Anche in questo caso il Senato veniva integrato in sessione speciale da un numero pari di consiglieri comunali, provinciali e regionali. La sessione speciale riguardava l’esame di d.d.l. in materia di: a) legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di Comuni e Province; b) coordinamento informativo, statistico e informatico; c) tutela di imprescindibili interessi nazionali nelle materie attribuite alla competenza legislative regionale; d) autonomia finanziaria di Comuni, Province e Regioni. La Camera decideva in via definitiva sui d.d.l di cui alle lettere b) e c).

Nel 2001 interviene la ben nota riforma del Titolo V della Parte seconda della Costituzione. La Legge cost. 3/2001, pur operando sul solo Titolo V (artt.114-133 Cost.), conteneva un ultimo articolo, rimasto lettera morta, che prevedeva quanto segue: «1. Sino alla revisione delle norme del titolo I della parte seconda della Costituzione, i regolamenti della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica possono prevedere la partecipazione di rappresentanti delle Regioni, delle Province autonome e degli enti locali alla Commissione parlamentare per le questioni regionali. 2. Quando un progetto di legge riguardante le materie di cui al terzo comma dell’articolo 117 e all’articolo 119 della Costituzione contenga disposizioni sulle quali la Commissione parlamentare per le questioni regionali, integrata ai sensi del comma 1, abbia espresso parere contrario o parere favorevole condizionato all’introduzione di modificazioni specificamente formulate, e la Commissione che ha svolto l’esame in sede referente non vi si sia adeguata, sulle corrispondenti parti del progetto di legge l’Assemblea delibera a maggioranza assoluta dei suoi componenti».

Per quanto sia rimasta inattuata, questa disposizione continuava la tradizione dei precedenti progetti. Camera e Senato rimanevano infatti sostanzialmente invariati; l’integrazione di rappresentanti territoriali, in questa ipotesi, non passava attraverso il Senato ma attraverso la Commissione bicamerale che veniva chiamata ad esprimersi sui d.d.l. riguardanti le materie di competenza concorrente ovvero relative al riparto finanziario e fiscale. Di rilevante vi è però l’incipit della disposizione che evoca ed auspica una modifica di quel Titolo I che contiene le norme sul Parlamento.

Nel 2003, in una baita alpina, alcuni esperti del centrodestra mettevano a punto un progetto di riforma riguardante l’intera Parte seconda della Costituzione. L’idea venne trasfusa in un d.d.l. di iniziativa governativa presentato in Parlamento del settembre 2003. Il progetto fu approvato ai sensi dell’art.138 Cost. e poi sottoposto a referendum confermativo nel giugno 2006: sul 53,7% di votanti, il 61,7% si espresse a sfavore.

Per la prima volta viene formulata un’ipotesi di effettiva modifica del bicameralismo perfetto. La legge costituzionale prevedeva infatti un Senato federale composto da 252 senatori, eletti in ciascuna Regione a suffragio universale e diretto, contestualmente all’elezione del rispettivo Consiglio regionale. La contestualità era in entrata e in uscita, nel senso che il mandato dei senatori coincideva con la legislatura regionale di provenienza. All’attività del Senato partecipavano, senza diritto di voto, i rappresentanti delle Regioni e delle autonomie locali (in ciascuna Regione il Consiglio regionale sceglieva un proprio rappresentante, il CAL un rappresentante dei Sindaci e uno delle Province/Città).

Interessante è ricordare, in maniera schematica, l’organizzazione del procedimento legislativo: la Camera decideva in via definitiva sulle materie di potestà esclusiva, mentre il Senato decideva in via definitiva sulle materie di potestà concorrente. Le due Camere rimanevano in posizione di parità su alcune materie: livelli essenziali delle prestazioni e funzioni fondamentali degli enti locali; art.119; poteri sostitutivi; sistema elettorale di Camera e Senato; leggi dello Stato di cui ai commi 5 e 9 dell’art.117; art.118, cc.2 e 3; 122, c.1; 125; 132, c.2 e 133, c.2. In caso di disaccordo si prevedeva la convocazione di una commissione paritetica. Un punto rilevante da rievocare riguarda la fiducia, che, nel progetto, continuava ad essere espressa dalla Camera e dal Senato. La previsione era coerente con un Senato composto da membri eletti direttamente dal corpo elettorale.

Nel corso del 2009 vede la luce la c.d. bozza Violante. Anche in questo caso si perseguiva l’idea di una effettiva modifica del bicameralismo. I membri del Senato erano eletti indirettamente, essendo espressione dei Consigli regionali e dei Consigli delle autonomie locali (CAL). I Consigli regionali, a seconda della popolazione regionale, eleggevano da un minimo di 5 fino a un massimo di 12 (Molise e Valle d’Aosta esprimevano 1 senatore, mentre le due Province autonome ne eleggevano 2 ciascuna); i CAL esprimevano 1 o 2 senatori a seconda che la Regione superasse il milione di abitanti (anche in questo caso i CAL delle due Province autonome eleggevano 1 senatore ciascuna). Ovviamente l’espressione della fiducia era riservata alla sola Camera dei deputati.

Quanto al procedimento, le due Camere erano in posizione pariordinata in casi determinati. Nelle materie di competenza concorrente interveniva prima il Senato e poi la Camera, che deliberava in via definitiva e poteva apportare modifiche a maggioranza assoluta dei componenti. In tutti gli altri casi i d.d.l. erano approvati dalla Camera, il Senato potendo approvare modifiche sulle quali la Camera si pronunciava in via definitiva. Solo se le modifiche approvate riguardavano le materie di cui agli artt.118, cc.2-3, o 119, c.3, la Camera poteva modificarle o respingerle a maggioranza assoluta.

Nel 2012, corrente la XVI legislatura, il Senato ha approvato un progetto di riforma (A.C.5386) riguardante la forma di governo (governo semi-presidenziale), la riduzione del numero dei parlamentari (i senatori diventano 250 eletti a suffragio universale e diretto), la trasformazione del bicameralismo con esclusivo riguardo al procedimento legislativo, il raccordo con le autonomie territoriali regionali (partecipava ai lavori del Senato, con diritto di voto sulle materie di legislazione concorrente ovvero di interesse degli enti territoriali, un rappresentante per ogni Regione, eletto fra i propri componenti, all’inizio di ogni legislatura regionale, da ciascun consiglio o assemblea regionale)

Il Gruppo di lavoro sulle riforme istituzionali nominato dal Presidente della Repubblica nel marzo 2013 (composto da Valerio Onida, Mario Mauro, Gaetano Quagliariello e Luciano Violante) ha elaborato una Relazione Finale nella quale si prevedeva un Senato delle Regioni costituito da tutti i Presidenti di Regione e da rappresentanti delle Regioni, eletti da ciascun Consiglio Regionale in misura proporzionale al numero degli abitanti della Regione; inoltre il Consiglio regionale eleggeva uno o più sindaci.

Infine, sempre nel corso dello stesso anno, veniva nominata dal Presidente del Consiglio Letta la più ampia Commissione per le riforme costituzionali, composta da 35 membri, che ha svolto una ricognizione delle proposte possibili, presentando varie alternative in materia di riforma del bicameralismo e, in genere, lasciando aperte tutte le strade (anche quella del monocameralismo).

Quale insegnamento trarre da questa breve ricostruzione storica? Al di là dell’ovvia constatazione che di riforma del bicameralismo si ragiona, in maniera compiuta, da oltre vent’anni, direi che due sono i dati di fondo sui quali riflettere: 1) l’elezione indiretta dei senatori pare essere l’opzione prevalente, sia nella versione di un Senato eletto completamente in via indiretta sia nella versione di una sua integrazione per sessioni speciali.

L’unico progetto in cui l’elezione dei senatori avveniva direttamente (quello bocciato al referendum del 2006) manteneva l’espressione della fiducia in capo ad entrambe le Camere; 2) in tutti i progetti esaminati si prevede la presenza di rappresentanti delle Regioni ma anche, in forme differenti, degli enti locali. Anche questo pare essere un dato, per così dire, strutturale e caratterizzante delle proposte di riforma; 3) la differenziazione delle due Camere comporta una differenziazione del procedimento legislativo. Ciò accadeva anche nel progetto del centrodestra, in cui i membri delle due Camere erano eletti direttamente dal corpo elettorale.

Rimane allora la domanda: la riforma sulla quale voteremo il 4 dicembre rappresenta davvero un corpo estraneo rispetto alla più recente storia repubblicana?

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