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Molte le perplessità, sul metodo e sul merito, suscitate dalla riforma costituzionale. C’è una macro-questione, non sempre presa nella dovuta considerazione, sulla quale concentrare l’attenzione: il ruolo del Governo nel nuovo impianto costituzionale…

Molte le perplessità, sia sul piano del metodo che del merito, suscitate dalla riforma costituzionale che sarà oggetto del prossimo referendum approvativo in autunno. C’è comunque una macro-questione, non sempre adeguatamente presa in considerazione, sulla quale, dato il limitato spazio a disposizione, vorrei concentrare la mia attenzione. Si tratta del ruolo del Governo nel nuovo impianto costituzionale.

Non c’è alcun dubbio che quello del rafforzamento-stabilizzazione dell’Esecutivo costituisca uno degli obiettivi di fondo dell’azione riformatrice, che esplicitamente si candida a soluzione della endemica debolezza governativa che ha contrassegnato la nostra storia repubblicana, regalandoci ben 63 governi in settant’anni.

In questo senso vanno alcune delle scelte qualificanti della revisione costituzionale approvata dalle Camere: dalla previsione del conferimento della fiducia al Governo ad opera della sola Camera dei deputati alla attribuzione a quest’ultima della posizione dominante su buona parte della attività legislativa; dalla introduzione del procedimento c.d. a data certa, ai mancati interventi su delega legislativa e questione di fiducia, quantomeno con riguardo a note pratiche distorsive, cui farò un rapido cenno più avanti.

Va, tuttavia, precisato che quello del rafforzamento del ruolo dell’Esecutivo è uno scopo che la modifica costituzionale non è in grado di supportare in via esclusiva, trattandosi piuttosto di un intento solidalmente condiviso con un’altra riforma: quella elettorale. Esso, in pratica, è frutto del congiunto operare di un duplice intervento riformatore: della Carta costituzionale e del sistema elettorale della Camera dei deputati.

Invero, le scelte compiute dal legislatore di revisione prima rammentate sarebbero molto meno rilevanti, quantomeno ai fini che qui ci occupano, ove non fossero accompagnate da una legge elettorale – qual è quella appena entrata in vigore (c.d. Italicum) – che assicura, in ogni caso, un premio di maggioranza (pari al 54% dei seggi alla Camera dei deputati) alla forza politica (e non alla coalizione) che abbia vinto le elezioni, il cui Capo, appositamente indicato all’atto di presentazione delle liste, è (quasi ineluttabilmente) destinato a divenire il nuovo Presidente del Consiglio.

È infatti soprattutto in ragione di quest’ultima normativa che il continuum maggioranza (alla Camera) e Governo si fa fortissimo e di conseguenza la posizione dell’Esecutivo particolarmente robusta. Forza e robustezza che, peraltro, andrebbero saggiate non solo alla luce del premio di maggioranza e della garanzia di godere del sostegno della maggioranza assoluta nell’unica camera politica, ma anche alla stregua dell’effetto di frantumazione delle minoranze che la bassa soglia di sbarramento per la partecipazione alla competizione elettiva, pari al 3% dei voti su scala nazionale, può verosimilmente produrre.

Del resto, la nuova legge elettorale – come è noto ai più – è stata pensata in funzione della revisione costituzionale, prova ne sia il fatto che, da una parte, essa modifica il solo sistema elettorale per la Camera e non incide su quello del Senato, evidentemente nella prospettiva dell’approvazione della legge di revisione costituzionale che prevede la non diretta elettività dei senatori, e che, d’altra parte, l’applicabilità della nuova disciplina (approvata nel maggio 2015) è stata differita al 1° luglio 2016, nella speranza (all’epoca nutrita) che l’approvazione della riforma costituzionale avvenisse a maggioranza dei due terzi con la conseguente esclusione del referendum popolare.

Insomma, nel referendum si voterà sulla nuova Costituzione, ma non si potrà che farlo alla luce della nuova legge elettorale per la Camera che, quindi, costituisce il vero e proprio convitato di pietra della competizione referendaria.

Rispetto all’obiettivo in esame, c’è da porsi un duplice interrogativo: a) se questa fosse la scelta strategica di cui aveva bisogno il nostro sistema politico-costituzionale; b) quali sarebbero le conseguenze.
Ebbene, tutte le analisi di questi anni sulle dinamiche del nostro sistema politico-costituzionale concordano nel riscontrare un evidente stato di prevalenza del Governo nei confronti del Parlamento, il cui ruolo si è progressivamente affermato più come ratificatore delle decisioni del primo che non come effettivo contitolare dell’indirizzo politico.

Basti qui rammentare soltanto il fatto che oramai da diverse legislature si registra una chiara prevalenza nella produzione di livello legislativo di normative di origine governativa – decreti-legge e decreti legislativi delegati – erispetto a quelle di diretta provenienza parlamentare: nella legislatura attuale, ad esempio, i decreti-legge e quelli legislativi ammontano a 223 rispetto alle 219 leggi formali, con la importante precisazione che ben un terzo di queste ultime è costituito da leggi di conversione di decreti-legge (dati Camera dei deputati aggiornati al giugno 2016).

A questo si aggiunge il (mai sufficientemente deprecato) fenomeno del massiccio ricorso governativo – in occasione dell’approvazione delle leggi – al congiunto meccanismo della riscrittura di interi provvedimenti legislativi in forma di unico emendamento presentato dallo stesso Governo (c.d. maxi-emendamento) e della posizione sullo stesso della questione di fiducia che, producendo l’effetto di impedire l’approvazione di ogni altra modifica al testo così riscritto, strangola il dibattito parlamentare e rende le Camere interlocutori proni ai desiderata di Esecutivi assolutamente prevalenti.

In sostanza, se un malato di fiacchezza e di fragilità c’è va individuato nel Parlamento piuttosto che nel Governo.
D’altronde, non bisogna neppure trasferire sui meccanismi normativi – costituzionali o elettorali che siano – responsabilità che originano e trovano alimento nella comunità politica. Si pensi soltanto ad alcuni governi sorti in epoca maggioritaria che, pur godendo delle ampie maggioranze assicurate dal sistema elettorale, tuttavia si sono progressivamente mostrati fragili e instabili a causa della litigiosità interna delle coalizioni uscite vincenti dalle elezioni.

Ma c’è un problema ancor più grave e preoccupante dietro l’operazione di rafforzamento del Governo posta in essere dalla diade riforma costituzionale-riforma elettorale. La concentrazione del potere negli ordinamenti democratici deve necessariamente abbinarsi ad un robusto sistema di controlli, limiti e garanzie. Ed è su questo (assai delicato e decisivo) piano che la revisione della Costituzione si presenta come particolarmente difettosa.

Fatta salva la novità costituita dall’abbassamento del quorum di validità del referendum abrogativo – dalla metà più uno degli aventi diritto al voto alla maggioranza dei votanti alle ultime elezioni per la Camera – laddove, però, la richiesta referendaria sia supportata dalla sottoscrizione di ottocentomila elettori, per il resto si colgono molteplici segnali di un indebolimento dei contropoteri e delle garanzie.

Penso alla pericolosa previsione di un Presidente della Repubblica potenzialmente eletto dai tre quinti dei votanti del Parlamento in seduta comune, ma ancor di più alla riduzione della forbice che alla Camera dei deputati separa la maggioranza dal conseguimento del quorum richiesto per l’elezione dei (3) giudici costituzionali assegnati. Tale forbice infatti può giungere ad attestarsi a soli 38 voti, per il gioco congiunto di premio di maggioranza, da un lato, e passaggio dal numeroso collegio del Parlamento in seduta comune ai collegi separati di Camera e Senato, dall’altro. Si tratta pertanto di un traguardo cui la stessa maggioranza può arrivare senza bisogno di accordi troppo ampi con opposizioni per di più verosimilmente frammentate. Senza poi dire, sempre sul piano dei c.d. contropoteri, della forte deminutio subita dalla sfera di competenza legislativa delle Regioni ad autonomia ordinaria.

Particolarmente significativi, peraltro, sono i mancati interventi del legislatore di revisione che, ad esempio, dimentica di elevare il quorum richiesto per la costituzione delle Commissioni parlamentari di inchiesta, la cui istituzione alla Camera resta nella disponibilità esclusiva della maggioranza – mentre al Senato risulta circoscritta solo a materie concernenti le autonomie territoriali – con buona pace della possibilità che la funzione ispettiva che esse sono chiamate a svolgere possa impiegarsi in funzione di controllo nei confronti dell’azione del Governo.

Ancor più grave, poi, il silenzio serbato sul quorum approvativo dei regolamenti parlamentari che resta fermo alla maggioranza assoluta dei membri di ciascuna camera. Se, infatti, come si dice da più parti, è proprio ai regolamenti parlamentari che la riforma della Costituzione assegna un ruolo assai rilevante circa l’implementazione, attuazione (e fors’ anche la ridefinizione) del nuovo assetto costituzionale è evidente che, il fatto che ciò possa avvenire alla Camera dei deputati con il solo consenso della maggioranza, non può non destare un qualche allarme. Un esempio per tutti: la nuova Costituzione assegna al regolamento della Camera la definizione dello “statuto delle opposizioni” (art. 64). Che questo statuto possa essere approvato col solo concorso dei voti della maggioranza mi sembra un po’ paradossale!

Chiudo, osservando che, se è indubbiamente eccessivo ed enfatico definire la presente riforma come un pericolo per la democrazia o lo strumento per la torsione autoritaria del nostro ordinamento, nondimeno essa pone in essere una significativa riduzione degli spazi di dialettica democratica del nostro sistema che non può non preoccupare. Credo che questa, al di là della divergenza di opinioni su singoli aspetti, sia da sola una gran buona ragione per votare NO.

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