Esistono ancora spazi aperti per interventi, anche precedenti al voto del 4 dicembre, che possono dare segnali utili per attenuare alcune criticità o orientare verso strade interpretative più condivise, quale che sia l’esito delle scelte referendarie

Sulla riforma costituzionale, complice il fuorviante aut aut posto dal Presidente del Consiglio già prima della approvazione parlamentare, si è da mesi consolidata, anche tra i giuspubblicisti, la propensione a schierarsi per il sì o il no, evidenziando ragioni a sostegno o, al contrario, argomenti in base ai quali le innovazioni previste sarebbero, almeno in prevalenza, rischiose e quindi da respingere.

Appaiono invece minoritarie le posizioni
di chi ritiene – specie in questa fase – compito primario del giuspubblicista, più che condizionare con la propria scelta di voto, contribuire al discernimento tecnico di un testo spesso mal scritto e comunque oggettivamente complesso, oltre che eterogeneo, aldilà della formulazione (accattivante) del quesito referendario, che riflette il titolo originario della proposta governativa, poi approvata dal Parlamento, in cui è rimasta un’evidente enfasi non sempre corrispondente ai contenuti (basti pensare alla assai modesta riduzione dei costi della politica, come riconosciuto anche da economisti schierati per il sì) . E sono ancor meno coloro che, oltre a prospettare una propria lettura sui chiaroscuri di metodo e di merito della riforma, cercano di evidenziare possibili spazi per interventi migliorativi prereferendum, potenzialmente in grado di attenuare qualche aspetto o nodo critico.

Oltretutto una impostazione di questo genere potrebbe forse ancora favorire un approccio meno divisivo al dibattito su una questione che richiederebbe di per sé ogni sforzo per non alimentare contrapposizioni, spesso per lo più di natura politica e tradotte in slogan di propaganda, che rischiano di perdere di vista o pregiudicare il senso stesso della Costituzione come Carta di tutti, in cui riconoscersi o comunque da accettare come riferimento di base per la stabile e pacifica convivenza democratica, aldilà del fisiologico pluralismo e delle contingenti maggioranze politiche.

Personalmente ho da tempo cercato di evidenziare – in chiave più o meno tecnica – il mio punto di vista su luci e ombre della riforma, esprimendo condivisione di massima per taluni degli obiettivi dichiarati di semplificazione e maggior efficienza del sistema istituzionale, ma sottolineando al tempo stesso quelle che mi sembrano ricorrenti soluzioni pasticciate o evanescenti o contraddittorie, che possono compromettere il disegno riformatore e aprire scenari di maggiore complicazione, se non di contrasto con principi costituzionali fondamentali, da prendere sul serio come limiti alla revisione, in particolare quelli riguardanti il valore delle autonomie (per la democrazia sostanziale e la ripartizione dei poteri pubblici) e della solidarietà nazionale (legata all’eguaglianza e alla coesione del sistema).

Rinviando a questi scritti per maggiori dettagli (“Questioni aperte per la riforma costituzionale”, in “Dialoghi”, n.1/2016; “I chiaroscuri della riforma costituzionale”, in “Amministrazione in cammino”, riv. online, 27 luglio 2016; “Contraddizioni e incoerenze della riforma costituzionale in materia di autonomie territoriali”, in “Studi parlamentari e di politica costituzionale”, n.1-2/2015), mi limito qui sinteticamente ad alcuni esempi, che mi sembrano però probanti e utili a suggerire qualche intervento tecnicamente fattibile, anche a breve, se vi fosse la volontà politica di individuare elementi di possibile convergenza su questioni a vario titolo rilevanti, approfondendo nodi critici e punti confusi o aperti evidenziati dai commentatori più attenti, spesso anche di coloro che hanno poi espresso una propensione complessiva per il sì. E si può aggiungere che tali eventuali convergenze potrebbero risultare utili indipendentemente dall’esito referendario, in un caso prefigurando una migliore attuazione della riforma, nell’altro costituendo una base di riferimento per riprendere il cammino di almeno talune riforme certo opportune.


Nuovo Senato

Se è certo condividibile il superamento del bicameralismo paritario, sia per accelerare le decisioni legislative che soprattutto per realizzare finalmente una sede di rappresentanza e di dialogo parlamentare per le autonomie regionali e locali, sono del tutto evidenti i molti problemi pendenti in ordine alla composizione del nuovo Senato, alla condizione dei futuri senatori a part-time (senza vincoli di mandato e protetti da immunità) e allo stesso ruolo di questo ramo del Parlamento, che potrebbe finire per diventare impropriamente una Camera politica di serie B, più che la voce delle autonomie al centro, a maggior ragione per via delle norme transitorie sulla formazione iniziale del Senato (che accentuano la concorrenza tra “liste” politiche con un mix di consiglieri regionali e sindaci, inducendo facilmente ad una pianificazione nazionale dei rappresentanti di Regioni ed enti locali).

Altrettanto evidenti sono le complicazioni e il rischio di conflitti che potrebbero derivare dalla pluralità di nuovi percorsi immaginati per l’approvazione delle leggi. Di qui lo spazio sia per iniziative che il Governo potrebbe già ora assumere per chiarire almeno le modalità di elezione in prima battuta dei rappresentanti delle Regioni e dei Comuni, evitando tra l’altro che i sindaci siano scelti paradossalmente dai Consigli regionali, sia per studi preparatori del nuovo regolamento del Senato, in vario modo decisivo per una tempestiva chiarificazione della sua fisionomia e del suo futuro funzionamento, a riforma approvata.

Governabilità
Se vanno condivise sia la scelta della fiducia al Governo affidata alla sola Camera dei deputati, sia la limitazione dei decreti legge a fronte di possibili richieste governative di decisioni parlamentari a data fissa, suscitano fondate preoccupazioni le conseguenze sulla forma di governo parlamentare prevista in Costituzione, legate alla legge elettorale fortemente maggioritaria per la Camera (Italicum), approvata in parallelo con la riforma costituzionale, da cui deriverebbe un sostanziale spostamento del baricentro politico sull’esecutivo, anzi sul suo vertice, con una sorta di premierato assoluto.

Di qui la necessità sia di por mano tempestivamente a tale legge elettorale, eliminando talune previsioni rischiose o sostituendola con un sistema più congruo anche per il rapporto tra cittadini e candidati/eletti, sia di rafforzare almeno taluni contrappesi, visto tra l’altro l’indebolimento potenziale della indispensabile condizione di autonomia di taluni organi di garanzia, come il Presidente della Repubblica e la Corte costituzionale. In tal senso il Governo potrebbe fin d’ora prefigurare modalità e tempi certi per realizzare effettivamente talune forme di democrazia diretta, ora solo enunciate dalla riforma (es. iniziative legislative popolari rafforzare, referendum propositivi, con apertura alle firme elettroniche), così come lo statuto dell’opposizione, assumendo almeno un preciso impegno politico a concretare questi strumenti di partecipazione dei cittadini e di garanzia democratica.

Rapporti Stato-Autonomie
Se va condiviso quanto previsto dalla riforma in ordine a taluni riequilibri nel riparto della potestà legislativa tra Stato e Regioni rispetto a quanto stabilito nella novella costituzionale del 2001 in materia, tenendo anche conto della giurisprudenza della Corte costituzionale, è sicuramente da censurare il neocentralismo dirigista che ispira tutta la parte del testo riguardante la condizione ed il ruolo delle istituzioni regionali e locali, per le quali non si è certo mirato a dar vita ad effettive autonomie responsabili, se del caso integrando o correggendo in qualche punto le scelte della precedente riforma. Si è in realtà perseguito un disegno di forte ridimensionamento del senso e del ruolo delle autonomie di vario livello, in vario modo dipendenti se non in balia del centro (anche con clausole di supremazia e soppressione di istituzioni locali da sempre riconosciute), in chiaro contrasto con il principio fondamentale sancito nell’art. 5 Cost., laddove – proprio per contrastare le ricorrenti tentazioni centralistiche – si vincola il legislatore a valorizzare il più possibile le autonomie riconosciute come costitutive della Repubblica.

Pur non potendosi ora modificare il testo sottoposto a referendum, si potrebbe almeno chiarire tempestivamente qualche punto importante pieno di incognite, come il senso delle future aree vaste, che dovrebbero subentrare alle province, attuando nel contempo finalmente la norma chiave già vigente (art. 119 Cost.) sulle risorse finanziarie delle autonomie territoriali commisurate alle funzioni attribuite, in base a criteri oggettivi.

Regioni speciali
Sul questo punto si prevede un del tutto improvvido e ingiustificabile rinvio di applicazione della riforma, in attesa di una revisione degli statuti, oltretutto subordinata al consenso di ciascuna delle Regioni interessate, che verosimilmente non sarebbero molto disponibili a modificare i molti privilegi (specie) finanziari di cui chi più chi meno godono, con evidenti disparità di trattamento e persistente conflitto con i principi di eguaglianza/solidarietà sanciti in Costituzione sul piano dei diritti civili e sociali. In attesa che si operi una esplicita scelta per il superamento di questa specialità malintesa (che rischia sempre più di pregiudicare la stessa coesione nazionale), dando invece spazio effettivo ad autonomie regionali eventualmente differenziate sulla base di regole eguali per tutte le Regioni, non vi è alcun impedimento già ora per il Governo ad avviare le procedure di revisione degli statuti, senza sottostare ad alcun veto, dando applicazione generale – senza figli e figliastri – alla ricordata norma costituzionale che correla funzioni attribuite e risorse per esercitarle, da considerare un vincolo di sistema.

In conclusione, se non è possibile ormai intervenire a correggere il testo su cui ci si dovrà esprimere in sede di referendum, non dovrebbero essere sottovalutati vari spazi aperti per interventi, anche precedenti al voto del 4 dicembre, che possono dare segnali utili per attenuare alcune criticità o orientare verso strade interpretative più condivise, quale che sia l’esito delle scelte referendarie. Ma ci sono le condizioni per ragionare in questa direzione?

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