La sfida da percorrere è quella di alimentare condizioni sociali capaci di impedire o almeno limitare la diffusione del disagio psichico. La promozione della qualità della convivenza e sul piano giuridico della cittadinanza può produrre una nuova salute mentale diffusa. Ciò dovrebbe spingere a ripensare le soluzioni organizzative sino ad oggi adottate nell’ambito del SSN ed in particolare il modello dipartimentale. La legge Basaglia è durata pochi mesi, ma che ha cambiato il diritto alla salute

L’adozione nel 1978 della legge n. 180, nota come “legge Basaglia”, ha segnato una “rivoluzione” nel tessuto sociale, nel sistema sanitario e nell’ordinamento giuridico. Essa sanciva la chiusura degli ospedali psichiatrici ovvero dei “manicomi”, apprestava inedite garanzie giuridiche per gli accertamenti e i trattamenti sanitari obbligatori per la malattia mentale, attribuiva agli ospedali territoriali il trattamento sanitario obbligatorio delle persone affette da malattie mentali e i ricoveri ospedalieri per alterazioni psichiche, affidava ai servizi e ai presidi psichiatrici “extra ospedalieri” l’erogazione degli interventi di prevenzione, cura e riabilitazione relativi alle malattie mentali, cancellava le norme penali che prospettavano uno specifico ed afflittivo sistema sanzionatorio per “gli alineati e gli infermi di mente”, restituiva loro i diritti politici. Si abbandonava il paradigma della custodia, della tutela, del controllo e della protezione sociale, della repressione e della sicurezza, per abbracciare quello della medicina, della cura dell’individuo, o più correttamente del prendersi cura della persona. Percorso che ha raggiunto la sua ultima tappa soltanto nel 2017 con la definitiva abolizione degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, ma che ha lasciato irrisolto il problema della salute mentale delle persone detenute in carcere.

Evidente era l’intento di ridare, se non riconoscere e garantire per la prima volta, dignità sociale, sanitaria e giuridica alle persone interessate dalle malattie mentali. Attraverso il ripensamento della disciplina e delle modalità di erogazione dei trattamenti sanitari nei confronti dei “malati mentali” il legislatore, spinto da un pressante movimento sociale sfociato in una inevasa richiesta referendaria, si prefissava di superare lo stigma sociale e giuridico della malattia mentale. Un obiettivo collocato in un orizzonte più ampio che avrebbe dovuto coinvolgere quanti a prescindere da una malattia mentale si sarebbero sottoposti ad un accertamento o ad un trattamento sanitario sancendone, secondo il dettato costituzionale dell’art. 32, la volontarietà.

Il contenuto della legge n. 180 qualche mese dopo sarebbe stato riversato nella legge n. 833 istitutiva del servizio sanitario nazionale dalla medesima prefigurato, con cui il nostro Paese trasformava l’assistenza sanitaria in un servizio pubblico universale, legando in tal modo imprescindibilmente l’erogazione delle cure per le malattie mentali alle sorti del SSN, ma soprattutto riportando la salute mentale nel grembo del diritto costituzionale alla salute. Di esso condivide, infatti, la natura libertaria (la libertà di cura) e sociale (la pretesa alle cure), candidandosi a costituire dopo 40 anni il più attuale e problematico banco di prova per la sua effettività.

Non possiamo tacere come sul piano giuridico permangano, per quanto attestato dalla cronaca, profili problematici legati soprattutto ai trattamenti sanitari obbligatori e alla sanzione nei casi più gravi dell’incapacità giuridica: l’incerta valutazione in alcune occasioni dell’interesse generale che impone il trattamento sanitario finisce per far riemergere nella pratica lo stigma della pericolosità sociale, così come la dichiarazione di incapacità finisce per assumere connotati escludenti dalla convivenza sociale.

Tuttavia, rispetto a 40 anni fa assistiamo ad un cambiamento del disagio psichico e dei disturbi mentali: emergono disturbi meno invalidanti ma più diffusi (ad esempio disturbi dei comportamenti alimentari, depressione giovanile, ludopatia). La risposta del SSN si è inverata nel DPCM del 12 gennaio 2017 con il quale sono stati ridefiniti i livelli essenziali di assistenza, ricomprendendo in essi l’assistenza sociosanitaria ai minori con disturbi in ambito neuropsichiatrico e del neurosviluppo, l’assistenza sociosanitaria alle persone con disturbi mentali e l’assistenza sociosanitaria semiresidenziale e residenziale alle persone con disturbi mentali. Il SSN si è impegnato ad assicurare “la presa in carico multidisciplinare e lo svolgimento di un programma terapeutico individualizzato differenziato per intensità, complessità e durata”. Ma nonostante gli impegni delle regioni permangono, come emerso dalle più recenti indagini, significative differenze territoriali nell’erogazione dei servizi, nonché una riduzione delle risorse impiegate. Situazione che mina tanto l’effettività del diritto alla salute, quanto l’uguaglianza sostanziale tra le persone.

Ma oggi il giudizio sull’evoluzione degli interventi per la salute mentale travalica la “dimensione” sanitaria, la valutazione sul sistema di interventi terapeutici assicurato dal SSN, sulla quantità e qualità delle cure ricevute, e tende ad investire la più generale condizione sociale e giuridica delle persone con disagio mentale.

Bisogna interrogarsi sulla più ampia visione dei diritti civili e sociali da garantire in concreto, su quell’insieme di diritti e doveri che concorrono alla realizzazione della persona così come sancito dall’art. 2 della Costituzione, che custodiscono e promuovono la sua dignità, fra i quali certamente il diritto alla salute costituisce l’espressione fondamentale. Una prospettiva che rinviene le sue radici nella Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità ratificata dal nostro Paese con la legge n. 18 del 2009, che annovera all’art. 3 tra i suoi principi “il rispetto per la dignità intrinseca, l’autonomia individuale, compresa la libertà di compiere le proprie scelte, e l’indipendenza delle persone” e “la piena ed effettiva partecipazione e inclusione nella società”.

Ridare dignità alle persone con disturbi mentali significa non solo riconoscere diritti prima negati, ma soprattutto aiutare il soggetto a recuperare le capacità necessarie per esprimere la propria personalità sia sul piano identitario che su quello relazionale. Significa rilanciare l’idea ispiratrice della legge adottata 40 anni orsono che poneva al centro la persona, non più identificata con la sua “malattia”, né con lo stigma sociale della sua “pericolosità”, che poneva al centro un diritto alla salute non come semplice diritto a ricevere delle cure, ad esser curato, ma come un diritto a sviluppare le capacità e a vivere in contesti di vita idonei a realizzare appieno la propria personalità, un diritto ad un’esistenza libera e dignitosa.

Un diritto a cui far corrispondere un dovere collettivo, secondo la direttrice egualitaria e solidaristica degli artt. 2 e 3 della Costituzione, volto ad assicurare la qualità della vita delle persone con disturbi mentali e la partecipazione alla vita sociale, ben oltre il semplice “reinserimento” sociale.

Non possiamo dimenticare al contempo come il contesto sociale rappresenti un fattore di rischio per i disturbi mentali. Crescente è l’emersione di gruppi sociali vulnerabili, dalle persone che versano in stato di povertà ai malati cronici, dai giovani alle vittime di discriminazioni. A sua volta i disturbi mentali sono molte volte causa di disagio ed esclusione sociale.

L’orizzonte che si presenta è quello di spostare l’attenzione da una preoccupazione terapeutica e da un approccio sanitario (pur sempre irrinunciabili) ad un coinvolgimento sociale. La dignità delle persone passa non solo attraverso la garanzia di prestazioni necessarie per soddisfare i loro bisogni essenziali e per promuovere le loro capacità, ma anche (e soprattutto) dall’integrazione sociale (ad esempio attraverso l’esperienza lavorativa). Forse è proprio su questo versante che registriamo i più significativi ritardi.

Certamente un lascito della legge del 1978 riguarda il cambiamento istituzionale da essa innescato che ha avuto ricadute sociali: dall’ospedale psichiatrico si è passato al territorio e alla comunità. È dunque nella comunità che bisognerebbe promuovere nuove alleanze a partire dalle nuove generazioni. Una risposta in tal senso è certamente da cogliere nella legge n. 112 del 2016, la legge sul “dopo di noi”, che ha finalmente proiettato in un’ottica comunitaria la cura delle persone.

Più in generale la sfida da percorrere è quella di alimentare condizioni sociali capaci di impedire o almeno limitare la diffusione del disagio psichico. La promozione della qualità della convivenza e sul piano giuridico della cittadinanza (dei diritti effettivamente goduti) può produrre una nuova salute mentale “diffusa”. Ciò dovrebbe spingere a ripensare le soluzioni organizzative sino ad oggi adottate nell’ambito del SSN ed in particolare il modello dipartimentale.

La legge Basaglia una legge “durata” pochi mesi, ma che ha cambiato il diritto alla salute.

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