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Era il buon Mick Jagger che si dimenava sul palcoscenico sostenendo che una volta acceso non si sarebbe fermato… Beh, è quello che vorremmo tutti: accendere la giusta politica economica per una duratura generazione di lavoro. È evidente che non possiamo continuare a replicare modelli che sono irreversibilmente defunti: non si genera lavoro continuando a fare ciò che altri competitor […]

Era il buon Mick Jagger che si dimenava sul palcoscenico sostenendo che una volta acceso non si sarebbe fermato… Beh, è quello che vorremmo tutti: accendere la giusta politica economica per una duratura generazione di lavoro. È evidente che non possiamo continuare a replicare modelli che sono irreversibilmente defunti: non si genera lavoro continuando a fare ciò che altri competitor fanno già meglio con costi più bassi (ancora Mick: “I can’t compete with the riders in the other heats”…). È dunque l’innovazione il valore attorno a cui stringersi per penetrare il nuovo modello economico e, dunque, anche la nuova dimensione delle relazioni industriali.

È di questa ipotesi che ci parla Enzo Rullani, partendo da un breve ed utilissimo cenno storico sui modelli industriali per presentare il capitalismo globale delle conoscenze in rete: l’investimento su ciò che permette il passaggio dal lavoro esecutivo al lavoro generativo. D’altra parte oggi dobbiamo finalmente comprendere che il lavoro ha cambiato ruolo. E non è possibile comprendere questo passaggio se non si fa riferimento al mutamento di una cultura del lavoro.

Ce parla con straordinaria semplicità Walter Passerini, presentando le due culture del lavoro attraverso le quali cogliere questa transizione: dal lavoro dipendente al lavoro intraprendente. È con questo schema che possiamo leggere criticamente la condizione italiana. E a questo proposito una riflessione interessante ci è testimoniata da un imprenditore, Cristiano Nervegna, che sottolinea come in Italia il problema non sia fare impresa, ma avere mentalità d’impresa: riconoscere il merito, fare rete tra aziende e centri d’eccellenza e (certamente) semplificare l’amministrazione. Avere una mentalità imprenditoriale significa superare una mentalità clientelare che finisce per premiare interessi illegittimi…

rnGenerare impresa e generare lavoro possono coincidere: una bella (e non usiamo questo aggettivo a caso: leggete il pezzo) riflessione ci viene da Patrizia Cappelletti. Nel suo pensiero si assume il lavoro come fine dell’impresa: una logica non di spoliazione, semmai orientata a produrre giustizia e utilità. Il lavoro diventa locus in cui generare e rigenerare vita personale e sociale. Di esempi non ne mancano, basta osservare il sito web – Genius Loci – che da anni raccoglie le buone pratiche generative.

Anche il pensiero di Giuseppe Notastefano assume la generatività come parola-chiave, andando però a collegarla con una dimensione sociale equa e sostenibile: non si dà generatività all’interno di un paradigma puramente individuale. La generatività riscrive anche il nesso tra responsabilità e autonomia, alla luce di una riconfigurazione poliarchica. La poliarchica: ecco un modello che, sul piano istituzionale, diventa una richiesta politica per favorire un’economia buona, giusta, innovativa. Viviamo anni in cui la pluralità dei soggetti può trasformarsi in ricchezza di progetti nuovi.

Per questo ci torna utile il pezzo di Paola Villa, che offre alla progettazione sociale un orizzonte di bene comune legato al tema del lavoro. Ci sta sfuggendo proprio questo nesso: il lavoro, per noi, è qualcosa di più di una esperienza personale. È un fatto sociale e civile: insomma, da mettere nel primo articolo di una Costituzione…

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