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Per uscire dalla passività, dall’attesa che qualcosa accada e compiere dei passi spiritualmente orientati verso un futuro fruttuoso e sostenibile, tra le molte risorse immaginabili vale la pena di rivalutare anche queste micro-alleanze tra giovani e adulti, che saranno tanto più feconde quanto più saranno a loro volta contestualizzate in comunità vive e innestate in tradizioni di lungo respiro

Il 17 maggio 1983 Alexandr Solženicyn – l’autore di Arcipelago Gulag, che aveva documentato il terrore dei campi di lavoro sovietici dove venivano confinati gli oppositori politici – tenne a Windsor un discorso a una platea di giovani, intitolandolo “Non aspirate a una vita facile”. Erano gli anni Ottanta, gli anni in Italia della “Milano da bere”. Probabilmente gli anni in cui uscendo faticosamente dalla spirale di violenza del decennio precedente effettivamente tutto è sembrato facile, o almeno la tentazione della facilità ha fatto breccia, finendo per diffondere stili di vita che hanno consumato risorse che non appartenevano a quegli anni ma alle generazioni future, con un debito pubblico pressoché raddoppiato tra il 1980 e il 1990.

Al di là però della critica alle illusioni della facilità, c’è un passaggio di quel discorso che ancora oggi – e, anzi, oggi forse più che allora – vale come un avvertimento per chiunque, specie se più giovane, si stia chiedendo su che cosa puntare, su quali “competenze” acquisire per spuntarla in un mondo sempre più instabile e progressivamente più povero di garanzie istituzionali offerte al futuro. Diceva così Solženicyn: “La vostra istruzione sarà mal impiegata se non saprete formarvi uno sguardo spirituale, una posizione personale spirituale”.

Seguo da tempo le parabole di vita di persone che stanno attraversando la soglia che collega (e troppe volte separa) la stagione degli studi e quella del lavoro, dell’attivazione di spazi di autonomia, del raggiungimento della sostenibilità per una vita a due e magari anche aperta a dei figli. E continuo ad avere l’impressione che la differenza tra i tempi e i modi dell’attraversamento di questa soglia, più o meno lunghi, più o meno titubanti, dipenda proprio dalla compresenza di queste due coordinate: competenze, istruzione, ma anche sguardo spirituale sulla propria storia.

Senza formazione è difficile inserirsi nei contesti lavorativi contemporanei, ma il vero punto debole per molti è proprio l’assenza o la fragilità embrionale di uno sguardo spirituale.

Devo spiegarmi meglio, perché “sguardo spirituale” può significare molte cose. Per intendere l’aggettivo, e riuscire poi a estrarre una lezione antropologica e per tanti versi laica sull’idea di sguardo spirituale, occorre in questo caso passare proprio attraverso la concezione cristiana dello Spirito.

Un brillante ventisettenne dei primi anni ‘ 30 – altra epoca di soglia tra illusioni di facilità e drammi enormi in incubazione –, Emmanuel Mounier, protestava contro le visioni dello spirituale troppo evanescenti, che lo riducevano a un hobby da salotto letterario:

Quando diciamo la parola “spirito” è proprio “spirito” che vogliamo dire: non un riflesso biologico di giustificazione o un’ipotesi di struttura o un qualcosa di approssimativo, bensì una realtà alla quale diamo una totale adesione, più grande di noi, che ci compenetra, ci impegna completamente trascinandoci di là di noi stessi” (E. Mounier, Rivoluzione personalista e comunitaria [1932], Ecumenica, Bari 1984, p. 31).

Ecco lo Spirito nella concezione cristiana: forza che avvolge, che unifica dall’interno e fa uscire da se stessi, imprimendo una direzione irripetibile alla vita di chi si lascia condurre. Ma questa idea dell’azione dello Spirito nella tradizione cristiana fa tutt’uno con la cura per la maturazione nel discernimento, con una iniziazione alla vita interiore e alle sue dinamiche, che ha come obiettivo esattamente quello di rendere la persona più capace di cogliere in se stessa la voce dello Spirito, imparando a distinguerla dalle innumerevoli altre pressioni percepibili intimamente, molte delle quali invitano peraltro sistematicamente ad aspirare a una vita facile.

Lo “sguardo spirituale” non è allora qualcosa di astratto, ma la possibilità di orientarsi nella vita a partire da una matura capacità umana di ascolto interiore, di riconoscimento delle caratteristiche e dell’affidabilità delle diverse intuizioni, suggestioni e idee che letteralmente “passano per la testa”. In questo senso è una risorsa di valore antropologico, che alcune grandi tradizioni religiose hanno saputo cogliere come la via maestra per un’esperienza viva e personale di incontro con Dio. Possiamo aggiungere anche qualcosa di altro in chiave antropologica. È importante osservare che questa possibilità di orientarsi è il frutto della trasformazione dell’ascolto in visione.

L’ascolto è sempre un’attenzione rivolta al momento presente, che si tratti di cogliere quel che prende parola dentro di noi o di prestare attenzione a quel che altri ci stanno dicendo. Tutto ciò che ascoltiamo, se non troviamo il modo di fissarlo, fatichiamo a portarlo con noi. Per questo prendiamo appunti quando qualcuno ci spiega qualcosa a una lezione o quando ci offre delle istruzioni: per ricordare con precisione, cosa che a memoria più difficilmente sapremmo fare. Poter ritrovare i propri appunti è poter rivedere ciò che inizialmente abbiamo ascoltato, con il beneficio di una panoramica d’insieme, con l’aiuto che viene dal rendersi conto delle connessioni tra un appunto e l’altro, delle risonanze, del reciproco illuminarsi di annotazioni fissate in momenti di ascolto diversi.

È consultando una storia di ascolto che ormai sta alle proprie spalle che si riesce a dispiegare una visione di futuro, che rimane creativa e libera (perché l’ascolto continua) ma allo stesso tempo radicata e non improvvisata. Questo significa maturare uno sguardo spirituale: imparare a leggere la propria storia personale mettendo in connessione passato e futuro, memoria e progetto, radici e impegno.

Questo tipo di sguardo fa la differenza specialmente nei frangenti di cambiamento, quando più possibilità si profilano all’orizzonte, quando c’è del buono ovunque e il discernimento morale ha già valutato l’agibilità dei percorsi che si potrebbero aprire. Perché aveva visto bene Solženicyn: avere molte competenze tecniche e sapere come fare le cose non risponde ancora alla domanda su quali cose proprio io sono chiamato a realizzare. Questa risposta, che è spesso anche la risposta all’interrogativo su che cosa di nuovo andrebbe introdotto o accolto nella propria vita, non è il mercato del lavoro a dovercela dare, né un test psico-attitudinale – che è pur sempre costruito sull’osservazione statistica degli orientamenti di altre persone – ma è proprio la re-visione di quel filo irripetibile che si è svolto attraverso le mille pieghe di quel tanto di vita che ciascuno ha spalle.

Come maturare però questo tipo di sguardo spirituale?

È forse questo lo snodo in cui, proprio in questo tempo di fratture tra generazioni, occorre rilanciare quel rapporto tra adulti e giovani che consiste in un accompagnamento personale e personalizzato verso l’approfondimento della capacità di ascolto interiore. Perché senza crescita nell’ascolto non può maturare la capacità di visione. Ma senza qualcuno che inizialmente ci accompagni, fino al punto in cui potremo avanzare da soli e magari anche trasmettere ad altri questa sapienza antica di umanità, l’ascolto rischia di disperdersi in una frammentarietà senza memoria, e di rimanere così allo stadio embrionale del semplice susseguirsi di piccoli momenti di raccoglimento.

Per uscire dalla passività, dall’attesa che qualcosa accada e compiere dei passi spiritualmente orientati verso un futuro fruttuoso e sostenibile, tra le molte risorse immaginabili vale la pena di rivalutare anche queste micro-alleanze tra giovani e adulti, che saranno tanto più feconde quanto più saranno a loro volta contestualizzate in comunità vive e innestate in tradizioni di lungo respiro.

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