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I giovani dovranno prendersi con forza le opportunità e spiegare a scrittori e pensatori “stanchi” che non siamo di fronte ad una generazione di sdraiati ma di generativi e lavoratori responsabili. Giovani che vogliono essere imprenditori sostenibili, che vogliono costruire un futuro diverso…

E’ ormai evidente a tutti quanto oggi ci troviamo di fronte a trasformazioni rapidissime che stanno cambiando il mondo del lavoro. Il 4.0, nonostante la poca consapevolezza dei più, è già dietro le nostre spalle e l’automazione continuerà a cancellare numerosi posti di lavoro, cominciando dalle mansioni più ripetitive; se non saremo in grado di capire che ogni rivoluzione industriale porta con se una distruzione creativa, in grado di far emergere nuove professionalità. Pensiamo solo a quanto dei lavori presenti ad oggi, solo 20 anni fa erano impensabili. Il problema è che studiamo e ci formiamo sui lavori di ieri e forse di oggi ma non di domani, perché le nuove professionalità che richiederà il mercato rimangono sconosciute alla maggior parte dei giovani.

Il commercio elettronico inoltre continua a spostare crescenti quote di mercato online, sopprimendo spazi di lavoro nel commercio più tradizionale e a parte qualche cambiamento positivo – come l’accordo sindacale chiuso da Amazon per aumentare (di poco) il benessere dei suoi lavoratori – la situazione rimane complicata per i giovani che vedono sempre di più una convergenza verso il basso. Trasportare una merce per pochi euro non fa scattare un meccanismo di tutela della dignità del lavoratore ma innesca un meccanismo uguale e contrario di competizione al ribasso dei giovani e non, che si tengono stretti i lavoretti della Gig Economy perché sanno che se non lo fanno loro qualcun altro lo farà, a loro posto, alle stesse condizioni.

Vi è poi anche la domotica e l’assistenza da remoto che riducono le mansioni domestiche e di cura; i servizi online rendono inutili tanti lavori amministrativi, anche nella PA; nuove fruizioni di beni, prima utilizzati marginalmente, erodono clienti ai settori dell’ospitalità e dei trasporti; nuovi prodotti riducono i bisogni di intervento di professionisti e favoriscono la progettazione diretta da parte degli utilizzatori che diventano sempre più prosumer.

Il mondo della produzione e dei servizi quindi cambia vorticosamente, con nuovi attori che tendono ad assumere nuove funzioni di servizio in settori in cui lo stato riduce la sua presenza (sanità, sicurezza, infrastrutture).

Questi aspetti possono essere visti come dei limiti o come diceva già molti anni fa Jeremin Rifkn l’inizio e le basi per “la fine del lavoro”. In realtà sono il segno di un mutamento necessario che dovrebbe essere sinonimo di opportunità e di nuovi spazi da conoscere e occupare.

Sicuramente molte sono le domande e i dubbi su quanto e come saremmo in grado di affrontare questi mutamenti. Quali responsabilità abbiamo nei confronti delle future generazioni? Di quante lacrime e di quanta CO2 grondano i nostri prodotti a basso costo? Quale ruolo dovrebbe ricoprire la scuola e l’università?

Quali responsabilità ha la ricerca esasperata della riduzione dei costi e dell’efficienza nella produzione e la spinta continua alla sostituzione di prodotti, che pur funzionano, con nuovi modelli più performanti? Quale ruolo ha l’innovazione tecnologica, che pare usata per controllare e pilotare piuttosto che per aiutare le persone?

Una risposta certa non è possibile; il futuro non si può prevedere ma sicuramente possiamo avere una idea di dove dovrebbe andare il mondo, almeno fino al 2030 grazie all’Agenda dell’Onu e ai suoi obiettivi di sviluppo sostenibile.

Proprio questa visione comune e ad una lettura obbligata dell’obiettivo 4 “Educazione di qualità” e del Goal 12 “Consumo e produzione responsabile” ci dovrebbe portare ad un cambio di prospettiva radicale che, come ci ricorda nei suoi articoli Alessandro Rosina ribalta l’antico detto secondo cui noi ereditiamo il mondo che ci consegnano i nostri genitori. In realtà se vorremmo essere al passo con i tempi e raggiungere gli obiettivi di sviluppo sostenibile dovremmo pensare piuttosto di prendere in prestito il mondo dai nostri figli.

Se ragioniamo in questa logica, che è un semplice ritorno al passato – per l’esattezza al 1987 anno in cui disse Gro Harlem Brundtland, presidente della Commissione mondiale su Ambiente e Sviluppo (World Commission on Environment and Development, WCED,) istituita nel 1983, presenta il Rapporto Our common future (Il futuro di tutti noi) – avremmo già una formula molto valida di come dovrebbe essere il nostro modello di sviluppo: “lo sviluppo sostenibile è uno sviluppo che soddisfi i bisogni del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri”.

I giovani hanno un grande potere nelle loro mani: le vecchie generazioni che hanno contribuito direttamente o indirettamente ai divari e alle diseguaglianze crescenti presenti nel nostro paese, non saranno in grado di cavalcare questa ondata e non lasceranno sicuramente le proprie posizioni “dominanti”; non certo per le future generazioni. Esse dovranno prendersi con forza le opportunità e spiegare a scrittori e pensatori “stanchi” che non siamo di fronte ad una generazione di sdraiati ma di generativi e lavoratori responsabili.

Non importa quale tipologia di lavoro uno vorrà fare, dall’imprenditore all’impiegato, dal cuoco all’informatico tutto ruoterà intorno al concetto di sviluppo sostenibile e alla capacità di sapere anticipare i traguardi del 2030 con competenze solide e innovative dal punto di vista sociale e ambientale.

Serve un grande coordinamento per riportare in auge un altro concetto molto datato ma fondamentale, quello della “comunità educante”, dove imprese sostenibili, scuole e università generative, istituzioni e organizzazioni attente e responsabili siano interconnesse tra loro per rispondere ai bisogni sociali e ambientali di un territorio e alle richieste di nuove professionalità date dalle imprese (è impensabile che quasi il 40% delle imprese metalmeccaniche oggi non riesce a trovare una domanda qualificata da parte dei giovani).

Dall’altra parte le future generazioni dovranno essere in grado di essere imprenditori di loro stessi, di sperimentare e forse anche di “fallire” il più possibile fin dagli studi superiori e fare esperienze in imprese piccole e locali prima dei 30 anni. Dopo si apriranno scenari, ma dovranno prima appassionarsi, ricoprire diversi ruoli per la crescita della comunità e avere una visione del mondo che vorrebbero far ereditare ai propri figli o meglio restituire un mondo migliore di quello che hanno ereditato dai loro genitori.

Tutto questo, non per una mera questione di etica, ma perché è conveniente e sarà un vantaggio competitivo enorme per tutti coloro che capiranno che la sostenibilità nel lavoro non è una moda passeggera ma un dato di fatto e anticipazione del futuro, che non può essere previsto ma davanti al quale possiamo arrivare preparati.

NeXt cerca di costruire queste reti da diversi anni insieme alle organizzazioni associate e stimola i giovani ad essere imprenditori sostenibili attraverso percorsi che abbimo deciso di chiamare Prepararsi al Futuro.

La domanda più importante che un giovane dovrebbe porsi sarà infatti “Siamo consapevoli e ci stiamo preparando al nostro futuro”. A voi la risposta.

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