Il divario salariale di genere è la quota di denaro in meno che una donna guadagna solo per il fatto di essere donna. Questo fenomeno rappresenta uno dei principali ostacoli per raggiungere la parità di genere ed è in forte correlazione con la disuguaglianza economica…

Il Gender Pay Gap è il divario salariale di genere, ovvero, la quota di denaro in meno che una donna guadagna solo per il fatto di essere donna. Questo fenomeno rappresenta uno dei principali ostacoli per raggiungere la parità di genere ed è in forte correlazione con la disuguaglianza economica.

I dati del Global Gender Gap Index del 2018 mostrano come il divario di genere globale, a parità di condizioni e seguendo quello che è il trend attuale, verrà chiuso in Europa Occidentale non prima di 61 anni. Su 144 Paesi nel mondo troviamo l’Italia al 82° posto per capacità di colmare le differenze di genere, ma scendiamo al 126° posto se prendiamo in esame la sola parità salariale a parità di lavoro.

A livello globale le donne guadagnano il 23% in meno dei loro colleghi uomini pur avendo un livello di istruzione più elevato e un rendimento migliore (Istat 2017). Questi ultimi possiedono il 50% in più della ricchezza e controllano l’86% delle aziende (Oxfam 2019). Un divario difficile da colmare, basti pensare che le donne devono lavorare 59 giorni in più all’anno per raggiungere lo stipendio dei colleghi maschi.

Spostandoci in Italia e considerando i dati “grezzi”, il nostro Paese presenta un divario minimo, con un gap salariale del 5,6% (Oecd-Gender 2017), ma se i dati “grezzi” sembrano essere positivi, quelli complessivi lo sono un po’ meno.

Se si analizza il fenomeno considerando i settori a prevalenza femminile, che sono generalmente retribuiti meno rispetto a quelli a prevalenza maschile, il numero dei part-time e il numero di donne in posizioni dirigenziali, ecco che la differenza salariale schizza al 43,7% contro il 39% della media europea (Commissione Europea 2018). Percentuali vertiginose che sono causate da diversi fattori tra cui la grande quantità di impiegati/e nel settore privato. Altro fattore è la differenza tra il numero di donne e di uomini che hanno accesso a posizioni con stipendi più alti. I dati Istat del 2018 ci dicono che le donne che hanno percepito una retribuzione oraria superiore a 15€ sono il 17,8% contro il 26,25% degli uomini, e che l’11,5% delle donne ha percepito invece una retribuzione oraria inferiore a 8€, contro l’8,9% degli uomini. Il 59% delle donne Italiane percepisce, nel settore privato, una retribuzione oraria inferiore alla mediana nazionale contro il 44% degli uomini. Senza considerare le possibilità di carriera, il numero di part-time involontari e il tasso di occupazione femminile, rispetto al quale l’Italia si posiziona nelle posizioni più basse rispetto all’Europa.

Un fattore rilevante che emerge dai dati Istat elaborati dal JobPricing (Gender Gap Report 2018) è il legame tra le differenze retributive, il tipo di lavoro e il settore di occupazione. Le donne superano gli uomini in numero solo nei lavori non industriali: servizi alla persona (78%), ambito fiscale, amministrativo e legale (76%), turismo (68%), abbigliamento (59%), ristorazione (54%). Sopravvivono, quindi, stereotipi e modelli culturali tradizionali di genere che fanno sì che alle donne siano ancora riservati i lavori di cura e che creano una vera e propria segregazione sia negli studi che nel mondo del lavoro. Se la segregazione orizzontale riguarda il settore di studi od occupazionale prescelto, quella verticale riguarda l’impedimento a raggiungere i vertici più alti dell’azienda: la percentuale di donne in queste posizioni non supera il 50% in nessuno degli Stati Ue e l’Italia si piazza in coda alle classifiche con una presenza femminile nei ruoli manageriali del 27% (Istat 2017). Oltre alla segregazione esistono forme di discriminazione vere e proprie, che possono essere dirette o indirette ma che in entrambi i casi penalizzano le donne nel corso della loro carriera lavorativa.

La maternità come fattore di discriminazione

La minore e fortemente condizionata partecipazione delle donne al mondo del lavoro fa sì che esse accumulino nel complesso una minore esperienza sul campo, che si traduce in termini salariali, anche a causa delle interruzioni della vita lavorativa nei momenti di maternità e assistenza all’infanzia. Infatti la maternità è un elemento fondamentale che condiziona la partecipazione femminile al mondo del lavoro, rendendola frammentata e amplificando fenomeni quali la sospensione del lavoro, la riduzione degli orari e la difficoltà a raggiungere posizioni manageriali.

Uno studio Inps del 2017 stima che una donna dopo 24 mesi dalla nascita di un figlio, guadagna il 35% in meno di quanto avrebbe guadagnato se non avesse vissuto la maternità, perdita che aumenta per le donne che al momento del congedo di maternità hanno meno di 30 anni e un contratto a tempo determinato.

Troppo spesso la maternità diventa un alibi per i datori di lavoro per non assumere donne, e troppo spesso il fatto di essere già mamme diventa un impedimento ad avere accesso al mondo del lavoro. Se invece analizziamo coloro che lavorano, molte sono costrette a ridurre l’orario di lavoro (in Italia il 32% circa delle donne lavora part-time contro l’8% degli uomini) e molte altre addirittura ad uscire dal mondo del lavoro. Il tasso di occupazione delle donne con figli è del 56,2% e diminuisce con l’aumentare del numero dei figli (Istat 2015). La maternità nel nostro Paese è un serio ostacolo a permanere nel mondo del lavoro e questo si riflette sui tassi di natalità che sono tra i più bassi d’Europa.

Paradossalmente l’esperienza della genitorialità, e della maternità in particolare, che è fondamentale rito di passaggio all’età adulta, oltre che funzione sociale primaria, diviene un ostacolo a stabilire un solido rapporto con il lavoro, con ricadute dirette sulle traiettorie biografiche delle donne e sulle loro possibilità di realizzazione.

Noi giovani donne ci ritroviamo infatti costrette a prolungare nel tempo il nostro percorso verso l’indipendenza a causa della mancanza di lavoro, della precarietà e della mancanza di politiche a supporto della famiglia. Uno studio Istat del 2018 dimostra come gli Italiani diventino autonomi all’età di 30 anni e come l’età alla nascita del primo figlio sia arrivata a 31,1 anni per le donne e a 35 per gli uomini. Arrivati ad una certa età o si decide di non avere figli (l’Italia è il Paese europeo con il più alto tasso di donne senza figli) o si sceglie di farne uno solo (il numero medio di figli per ogni donna in Italia è di 1,32, tra i più bassi d’Europa).

Questi fenomeni creano delle problematiche interconnesse. Facciamo fatica ad entrare nel mondo del lavoro, in quanto giovani ed in quanto donne, e intanto ci asteniamo dalla maternità finché non troviamo un occupazione stabile. Dall’altra parte, una volta entrate nel mondo lavorativo e diventate mamme, abbiamo serie difficoltà nel mantenere il posto di lavoro e nel poterlo svolgere senza sentirci schiacciate. È questo un tema centrale sul quale concentrarsi per dare il giusto peso al lavoro e alla famiglia e consentire progetti di vita liberamente scelti.

Come giovani donne avvertiamo l’esigenza di politiche che favoriscano la condivisione delle funzioni di cura così che la maternità non diventi più un fattore di discriminazione: ad esempio, sgravi fiscali alle aziende in caso di maternità delle dipendenti; politiche che aumentino il numero di servizi alla famiglia, come magari gli asili nido che in Italia coprono solo 22,8% della richiesta (Istat 2017). Al di là delle politiche bisognerebbe cambiare gli stereotipi a partire dall’infanzia per evitare che sia dato per normale e scontato che la donna rinunci alla realizzazione dei propri sogni per accudire la famiglia.

Aumentare le possibilità per le donne significa aumentare il capitale umano di un Paese e investire sulla sua crescita. Un Paese che rende così difficoltosa la genitorialità ed in particolare la maternità, tanto da farne un fattore di discriminazione, manifesta una palese contraddizione tra l’interesse dichiarato verso la famiglia e le concrete scelte politiche, compromettendo seriamente il proprio futuro.

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