Non basta riformare le istituzioni, ma bisogna ritrovare le ragioni etiche e culturali della «solidarietà politica, economica e sociale» che l’articolo 2 della Costituzione affida come obiettivo e come impegno a tutti gli italiani. Potrebbe essere però un primo passo. C’è davvero troppa ostentazione “muscolare” nei Palazzi e intorno alle urne…

La Grande Riforma della Costituzione voluta dal governo Renzi e bocciata dagli italiani il 4 dicembre del 2016 non avrebbe consentito di “sapere chi ha vinto la sera delle elezioni”, perché questo obiettivo doveva essere raggiunto con l’Italicum e il suo premio di maggioranza, attribuito secondo modalità travolte (almeno con riferimento al decisivo meccanismo del turno di ballottaggio) dal giudizio della Corte Costituzionale e non dalla volontà degli elettori. Riforma e Italicum, tuttavia, erano stati concepiti e approvati come le colonne portanti di un unico e coerente disegno di “democrazia decidente” e così erano state presentate ai cittadini. Lo stesso Matteo Renzi, per citare solo l’intervento a un convegno organizzato a Milano alla fine di maggio del 2016, affidava questo significato alla scelta referendaria: gli italiani dovevano decidere se «avere un sistema in cui chi vince governa e gli altri fanno opposizione preparandosi a governare la volta dopo oppure se si fanno le grandi ammucchiate tutti insieme». Rifiutando le ammucchiate, in un sistema frammentato e con una legge elettorale proporzionale, si può affondare nella palude dello stallo e dell’ingovernabilità e non si può negare che dopo le elezioni del 4 marzo gli italiani abbiano verificato quanto possa diventare complicato, in questa situazione, trovare una maggioranza e far arrivare qualcuno a Palazzo Chigi.

Non mi sorprendo nel constatare come sia subito ripartita la corsa alla riforma della legge elettorale e della Costituzione, puntando a un intervento limitato rispetto a quello tentato da Renzi e decisamente “mirato” sull’obiettivo della governabilità. E credo che proprio l’esperienza della prima applicazione del Rosatellum offra la possibilità di una pronta e sonora rivincita agli sconfitti del 4 dicembre. Gli italiani accetteranno adesso più facilmente – forse perfino con un senso di liberazione – interventi anche pesanti che trasformino una minoranza elettorale in maggioranza assoluta. Molti saranno contenti di lasciare ai “tecnici” la decisione sugli strumenti e liquideranno con fastidio le obiezioni in nome dei valori della rappresentanza e dell’inclusione. Sarà arduo tentare di argomentare che possono esserci altre soluzioni per soddisfare il semplice (e comprensibilissimo) desiderio di non assistere più a uno spettacolo come quello offerto dalle forze politiche dopo il 4 marzo. Meglio avere la certezza che a un unico vincitore verrà consegnato subito un potere pieno e senza alibi, anche se avesse avuto i voti di meno di un italiano su quattro o perfino di uno su cinque, considerando i tanti che al voto, semplicemente, rinunciano. In fondo, non è per sempre. Dopo cinque anni si tornerà alle urne.

Non ho cambiato idea rispetto al 2016. Considero questo modello di democrazia – per il quale, lo ripeto, la strada potrebbe essere adesso spianata – una semplificazione non esente da qualche rischio. Nella cultura e nella pratica del maggioritario ci sono molti elementi positivi, a partire dal chiaro rapporto di responsabilità che si stabilisce fra governanti e governati. Tutti riconoscono che la coerenza dei programmi da attuare e la stabilità dei governi sono un bene per la democrazia e la continuità nel tempo dei sistemi istituzionali organizzati intorno a questa opzione sembra rassicurare sui suoi esiti di lungo periodo. Ma è anche vero che la logica del maggioritario, soprattutto nella versione che di essa si è consolidata in Italia, alimenta due tendenze che devono essere a mio avviso controllate e limitate, non esasperate.

La prima è l’idea che in società diventate così complesse e attraversate da vettori d’interesse sempre più diversificati e variamente sovrapposti le tensioni e i conflitti possano essere più efficacemente governati intervenendo semplicemente su tempi e modi del negoziato e della mediazione politici, se non addirittura liquidandoli come inciuci e ammucchiate. La seconda deriva del maggioritario alla quale fatico a rassegnarmi è il leaderismo come soluzione al problema della crisi di fiducia che compromette sempre più in profondità il rapporto di rappresentanza fra governanti e governati e fa crescere l’apatia, il disimpegno, il risentimento contro i “politici” considerati come una delle tante “caste” senza merito del paese. La seduzione di queste semplificazioni, peraltro, può diventare la scorciatoia di un’illusione. Una maggioranza creata a tavolino e che resta minoranza nel paese reale avrà sempre difficoltà nell’affrontare i temi che coinvolgono principi e valori fondamentali, perché soffrirà comunque di un deficit di consenso, soprattutto nei contesti che non sono già sostanzialmente bipolari. E le ricadute della consapevolezza che “conta solo arrivare primi” possono essere pesanti, pensando allo stile e al linguaggio della politica, ai contenuti e ai toni delle campagne elettorali, alla convinzione che “valga la pena” di cercare soluzioni condivise e che la democrazia come governo del popolo sia qualcosa di più dell’incoronazione di un vincitore. La verticalizzazione personalistica della rappresentanza si è dimostrata alla prova dei fatti non solo l’espressione di un’idea della democrazia pericolosamente orientata all’Io anziché al Noi, ma anche un meccanismo impietoso con i suoi stessi protagonisti.

Abbiamo certamente bisogno di “più” governabilità. Al tempo stesso, tuttavia, è importante bilanciare questa esigenza con quella di una rappresentanza che tuteli il ruolo e il valore della voce di tutti i cittadini. Anche per tentare di rivitalizzare il rapporto fra la sfera pubblica nella quale si svolge la vita delle persone con i loro bisogni, interessi e ideali e le istituzioni del potere che fa le leggi e governa. Per questo, in vista della probabile riapertura del cantiere delle riforme, credo che sarebbe utile riprendere l’idea di un nuovo bicameralismo, declinandola tuttavia in modo molto diverso rispetto alla proposta presentata dal governo Renzi. Ho provato a immaginare, in un articolo sull’«Huffington Post» del 28 marzo, le caratteristiche essenziali di questa ipotesi. Una Camera dei deputati con 450 membri – 300 eletti in collegi uninominali preferibilmente a doppio turno e 150 assegnati garantendo al “vincitore” la maggioranza assoluta in Parlamento e distribuendo secondo il criterio proporzionale la quota restante – sarebbe l’unica titolare del rapporto di fiducia con il governo. A un Senato con 150 membri, eletto invece con una legge rigorosamente proporzionale e non più «a base regionale», come prevede attualmente l’art. 57 della Costituzione, dovrebbero essere assegnate le più importanti funzioni di garanzia. La funzione legislativa sarebbe esercitata collettivamente dalle due Camere – secondo quanto previsto anche dalla riforma bocciata dagli elettori nel 2016 ma prevedendo un elenco in parte diverso – solo per alcune leggi. Su tutte le altre il Senato sarebbe comunque chiamato a esprimersi ed eserciterebbe un potere di controllo e di proposta, con l’obiettivo di garantire sempre un confronto pubblico, trasparente e basato sul consenso reale ottenuto dalle diverse forze politiche. Il vincitore delle elezioni avrebbe i numeri per decidere, ma non su qualsiasi cosa e assumendosi fino in fondo, quando fosse considerato inevitabile, la responsabilità di farlo da maggioranza parlamentare che è minoranza nel paese.

Questo “bicameralismo del rispetto” non sarebbe evidentemente sufficiente a curare il disagio e i mali della democrazia italiana. Per farlo c’è bisogno non solo di riformare le istituzioni, ma di ritrovare le ragioni etiche e culturali della «solidarietà politica, economica e sociale» che l’articolo 2 della Costituzione affida come obiettivo e come impegno a tutti gli italiani. Potrebbe essere però un primo passo. C’è davvero troppa ostentazione “muscolare” nei Palazzi e intorno alle urne. E non è vero che chi fa da sé fa per tre…

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