La crisi della democrazia rappresentativa è legata alla difficoltà di affidare a qualcuno la propria “delega”, la propria fiducia. In questo modello il cittadino è chiamato a scegliere chi farà le scelte. Molto probabilmente c’è bisogno di un nuova combinazione tra scelte del cittadino e deleghe ai suoi rappresentanti

Le elezioni politiche italiane hanno delineato uno scenario molto simile a quello di altre democrazie occidentali. È sufficiente ricordare la sfida tra Emmanuel Macron – esponente di una forza politica appena nata En Marche – e Marie Le Pen – leader del Front Nazional – in Francia; le difficoltà a formare un governo in Germania dopo l’esito di un voto che ha fortemente ridotto la base elettorale dei due partiti tradizionali CDU e SPD (Cristiano democratici e Socialisti), la quadripartizione del Parlamento spagnolo, il successo di Donald Trump negli Stati Uniti, contro la democratica Clinton e, prima, contro gli stessi apparati del “suo” Partito repubblicano sconfitti durante le primarie.

Si compone un quadro che da un lato vede crescere forze nuove e dall’altro lato mostra partiti, che hanno dominato la scena per decenni o più, cedere spazio politico.

È la crisi del modello della democrazia rappresentativa, oppure un suo nuovo assestamento?

Le forze emergenti hanno tutte una caratteristica centrale, eccettuato En marche, forse: esse si rivolgono direttamente al “popolo”, tanto che molti esperti osservatori hanno evidenziato il ritorno del populismo, anzi l’avvento di un populismo 2.0, come lo ha chiamato Revelli. Alcuni, come Diamantu e Lazar, specificano parlando di “popolocrazia”, perché queste forze esaltano l’ideologia del “popolo sovrano”. Queste forze delineano un campo di azione preciso: alto vs basso, perché si contrappone il popolo giusto contro un’élite corrotta; dentro vs fuori, perché si contrappone un’idea di noi, comunità da difendere, contro un altro esterno da cui proteggersi. Gli slogan delle campagne sono esplicativi: “classe dirigente incompetente, distante dal paese reale”; “prima gli italiani, aiutiamo gli immigrati a casa loro” per citare due esempi.

Le forze politiche che hanno perso terreno sono rimaste, attualmente, vittime delle loro scelte strategiche. Nei diversi Paesi raccoglievano l’eredità dei partiti di massa, nati in Europa dopo la seconda guerra mondiale. I partiti hanno lentamente modificato le loro strutture che prima erano radicate nel territorio e tra le realtà sociali, per scegliere una struttura molto più leggera. Come Colin Crouch ha descritto nella sua Postdemocrazia: la comunicazione è stata affidata ai media mentre la presenza sul territorio è stata abbandonata; per la rilevazione delle esigenze e dei bisogni della popolazione sono incaricate aziende di sondaggio, mentre non si “perde tempo” con le discussioni nei circoli o nelle sezioni. Tutto ciò ha contribuito a marcare una distanza tra struttura partito e cittadini da rappresentare. L’indebolimento delle ideologie prima comunista-socialista – dopo il crollo del muro di Berlino, poi neoliberista – dopo la grande crisi economica avviata nel 2008 – ha certo facilitato il distacco. Il messaggio dei vecchi grandi partiti di massa è diventato quello del “buon governo”, della “capacità di amministrare”, del rimanere coerenti a una linea, “europea” ad esempio. Queste forze in Italia, abbandonando progressivamente il rapporto con il militante, si sono affidate alle leadership plebiscitarie, bravi comunicatori capaci di bucare lo schermo.

Nel frattempo le società occidentali hanno vissuto al loro interno una crescita della disuguaglianza socio-economica, una progressiva riduzione della spesa per i sistemi di welfare, una forte precarizzazione del mercato lavorativo, hanno visto continuamente invecchiare la loro popolazione, hanno affrontato un flusso migratorio senza precedenti, incrementato da persone che fuggono dalla persecuzione, dalla guerra, dai disastri ambientali. A tutto ciò si aggiunga il crescente disinteresse strategico degli Stati Uniti verso l’area Europea e l’aumento nella zona dell’influenza della Russia di Putin.

Dentro un sistema simile non sono sufficienti le garanzie di un buon curriculum politico, servono visioni che raccontino nuove prospettive di futuro possibile per i cittadini. C’è bisogno di un’operazione culturale per coinvolgere i cittadini in una o più idee di società.

Per ora i risultati elettorali mostrano tre forze in campo: un gruppo antisistema che critica l’esistente, un gruppo conservatore, che rimane fedele ad esso, e un terzo gruppo che si astiene, perché sfiduciato, un forse sottovalutato 27% degli aventi diritto al voto (si tratta di oltre 13 milioni di astenuti) alle ultime elezioni politiche in Italia.

Immersi in questo scenario quali elementi andrebbero considerati per capire se ci dovremo attendere una battuta d’arresto della democrazia o un nuovo inizio?

Innanzitutto andrebbe valorizzata l’importanza delle procedure. Le regole di un sistema democratico portano i contendenti politici a incontrarsi tra loro, volenti o nolenti. Questo è un vero valore della democrazia. Qualcosa sta cambiando all’interno degli equilibri delle società, i processi sono duri, ma non ci sono rivoluzioni. Le società occidentali vivono in pace. Questo privilegio, rispetto ai nostri vicini, non possiamo permetterci di perderlo.

In secondo luogo c’è una questione da affrontare: la contrapposizione tra democrazia rappresentativa e popolocrazia. Le società non sono dei blocchi uniformi, ma si compongono di una pluralità di realtà: organizzazioni sociali, comunità religiose, sindacati, movimenti culturali. La “popolocrazia” tende a omologare tutto, non pone differenze interne alla società, diventa ideologia che astrae un’idea e la sclerotizza. I rischi sono evidenti: l’eliminazione del valore delle minoranze, la creazione di una continua separazione tra un noi “composto da illuminati, che hanno le idee chiare sul da farsi” e gli altri “composto da ingannati, che sono illusi, e ingannatori, che sono in malafede”; la difficoltà di vedere la ricchezza nell’incontro tra diversi per interagire verso la costruzione di un modello che sia riconosciuto da tutti. Dall’altra parte c’è la debolezza della democrazia rappresentativa, che si regge su strutture partito che oggi faticano a capire dove si trova la loro base elettorale. Queste strutture hanno corroso i loro consensi, perché, concentrati solo sul proprio equilibrio interno, non solo si sono disinteressati di mantenere un rapporto con i loro nuclei territoriali, ma hanno acquisito un linguaggio poco comprensibile ai cittadini.

In terzo luogo va affrontato il binomio popolo-cittadino. Ci sono livelli differenti di appartenenza che arricchiscono e non impoveriscono. Se ci si rivolge esclusivamente a un popolo-massa si trascura la dimensione personale, si corre il rischio di trascurare le libertà individuali. Inoltre l’attenzione al “popolo”, tutto intero, funziona, quando si gioca in difesa, perché riesce ad aggregare le persone sulla paura, ma non è in grado di proporre una società dinamica, capace di trasformazione. In questo caso è importante valorizzare i cittadini. Anche in questo caso vanno evidenziate alcune distinzioni. Il cittadino totale, che si occupa di tutte le questioni politiche, è un’illusione e nasce da un presupposto: la mancanza di fiducia negli altri. Infondo la crisi della democrazia rappresentativa è proprio legata alla difficoltà di affidare a qualcuno la propria “delega”, la propria fiducia. In questo modello il cittadino è chiamato a scegliere chi farà le scelte. Molto probabilmente c’è bisogno oggi di un nuova combinazione tra scelte del cittadino e deleghe ai suoi rappresentanti. I due momenti vanno meglio calibrati. Prima avvenivano nelle forme partito. Oggi?

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