E’ urgente ritessere la promessa reciproca e materiale della nostra Costituzione, fondata sul lavoro di tutti, e di soggetti sociali e persone che sappiano mantenerla. In questa prospettiva i corpi intermedi sono chiamati a svolgere un ruolo nuovo e antico: operare per ridare una prospettiva che esca dalla visione limitata dell’io individuale, o del noi settario o particolare, per abbracciare il mondo non come qualcosa da conquistare o difendere dagli altri, ma come un universo di vita alla quale restituire parola…

“Chi siamo noi, chi è ciascuno di noi se non una combinazione d’esperienze, d’informazioni, di letture, d’immaginazioni? Ogni vita è un’enciclopedia, una biblioteca, un inventario di oggetti, un campionario di stili, dove tutto può essere continuamente rimescolato e riordinato in tutti i modi possibili.

Ma forse la risposta che mi sta più a cuore dare è un’altra: magari fosse possibile un’opera concepita al di fuori di un self, un’opera che ci permettesse d’uscire dalla prospettiva limitata d’un io individuale, non solo per entrare in altri io simili al nostro, ma per far parlare ciò che non ha parola, l’uccello che si posa sulla grondaia, l’albero in primavera e l’albero in autunno, la pietra, il cemento, la plastica” (Italo Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Mondadori 1985)

Chi siamo noi?

Nessuno diviene se stesso da solo. Non solo noi singoli, ma noi come organizzazioni, come società, come Paesi, siamo una combinazione di esperienze, un campionario continuamente rimescolato di relazioni, incontri, culture. Questo è tanto più vero quando si parla dell’Italia: un ponte naturale in mezzo alle civiltà, alla Storia e ai continenti.

Gli italiani prima di tutti”, propone qualcuno, ma gli italiani, prima di tutto, sono popolo di popoli. I re erano occitani, la regione con più PIL porta il nome di un popolo germanico, per non parlare della civiltà greca, dei paesini albanesi, delle Madonne nere (pare 121 in Italia, 741 in Europa). Anche prima dell’attuale globalizzazione eravamo già globali, anzi, la globalizzazione nell’antichità eravamo noi. A un marziano che scenda verso lo stivale, inquadrandolo sempre più da vicino e vedendolo lì, tra nord e sud, est ed ovest, verrebbe spontaneo chiedersi quale molteplicità di genti, storie, mercati possa mai ospitare.

Il valore della comunità, aperta e non chiusa, è determinante, ma attenzione a calarlo dall’alto. Nella realtà tutto è più mescolato e complicato. Le scorciatoie del neonazionalismo o del localismo si pagano sempre care perché creano ulteriore frammentazione, ma i percorsi seri non sono mai lineari e scontati; chiedono di andare oltre le emergenze, di darsi politiche lungimiranti e partecipate, complessive, che siano insieme sociali, urbanistiche ed economiche, e di avere visioni policentriche delle città e dei territori, nonché del rapporto tra continenti. Ogni paese, quartiere o continente deve poter essere aiutato ad ambire a una sua centralità economica e civile, a un suo prestigio. Il valore della comunità è tale se mira ad una interdipendenza tra le parti.

Le relazioni, soprattutto oggi, non sono una scelta, sono un dato di fatto, spesso non facile, ma ineludibile, possiamo solo scegliere come e a quale fine viverle. E assumerne le conseguenze.

Stop ai migranti? Gioco forza saranno i nostri figli ad emigrare sempre più (oltre i dati terribili di oggi), perché, contrariamente a quanto si sbandiera, da sempre il lavoro si crea dove c’è movimento e ci sono giovani. Chiudendoci ne avremo sempre meno, anche perché si è ridotta nel tempo la generazione di donne italiane in età fertile. Chiamiamo “stranieri” un insieme di persone che sono già “noi” (spesso ex clandestini migranti economici), che per lo più sono colleghi, amici, vicini, imprenditori, lavoratori che da anni concorrono a fare il nostro Paese (spesso in modo determinante come nell’assistenza agli anziani o nel pagare le pensioni). E si prevede che già senza strette sull’integrazione, la popolazione cali pesantemente (del 10% in meno di 50 anni) con conseguenze dirompenti, compresa la svalutazione dei nostri risparmi che, in gran parte, sono case.

La questione immigrazione, per quanto complessa, non è che lo specchio del nostro frammentarsi in tanti “io” e “noi” settari e chiusi, che emerge orrendo anche nel dilagare della violenza contro donne e “familiare”. Più in generale sono le relazioni in qualsiasi contesto, a diventare ipercompetitive e aggressive.

Certamente è centrale e primario il lavoro educativo e culturale, ma non separato dalle condizioni materiali. La nostra Costituzione sancisce un patto tra produzione di ricchezza e solidarietà, tra lavoro e sviluppo sostenibile. E’ come se ogni giorno dovessimo tutti dare gambe ad una promessa reciproca: di sostenerci gli uni gli altri. La nostra democrazia non si limita a teorizzare il primato della persona, e non dei soli cittadini.

Questo patto deve essere percepito e vissuto nella quotidianità e non entrare in crisi in nome del primato dell’egoismo, compreso quello economico e finanziario (che spesso fa fortuna sulla prossima esplosione della bolla speculativa) e, di fatto, della rendita, anche di posizione, di pochi (magari premiate da una flat tax, una tassazione non più progressiva). Chiamiamo Mercato quello che spesso rischia di divenire solo Far West, perché non si compete alla pari: la legge del più grande, del più forte o del più furbo e disinvolto (nella legalità, nel clientelismo, nell’imporre prezzi bassi o nel pagare male o mai ..) spesso prevale sul merito, sull’etica civile, sul lavoro (e la vera “invasione”, in un Paese in declino, è la svendita o la subalternità a grandi multinazionali e proprietà straniere dei nostri marchi e della nostra economia). Se la promessa costituzionale appare o diventa per molti mera forma, allora cresce un’umanità selettiva, meno incline all’incontro e più allo scontro, alla voglia di farsi giustizia da sé; e alla rabbia. Quello su cui si può radicare il seme della rabbia e dell’odio è un mondo che mette insieme illusi e delusi, dai miti del successo e del possesso, e vinti, o quasi vinti – dalla burocrazia, dallo sfruttamento, dalla precarietà, dall’ingiustizia -.

La risposta … un’opera concepita al di fuori di un self

Senza giustificare nulla, dobbiamo chiederci se non abbiamo sottovalutato il malessere e l’anomia sociale, e la loro distanza dai pochissimi che accumulano soldi e potere, spesso senza merito, o troppo oltre i propri meriti. Se non abbiamo sottostimato il ridursi della distribuzione della ricchezza prodotta e l’assenza di una virata vera nella lotta alle diseguaglianze e allo sfruttamento dell’ambiente.

C’è bisogno nella quotidianità, nel vissuto della gente, di ritessere la promessa reciproca e materiale della nostra Costituzione, fondata sul lavoro di tutti, e di soggetti sociali e persone che sappiano mantenerla. Ma ciò significa anche rimettere in campo un progetto di economia politica che sia economia civile, negli esiti e nel protagonismo, che dia prova che possiamo costruire una trama dello stare assieme confidando in un futuro autenticamente migliore e sostenibile. Per tutti, e non per pochi.

Certo c’è un attacco al ruolo dei corpi intermedi, tradizionalmente vocati a trasformare le relazioni sociali in tessuto civile, in un quadro di valori, regole e comportamenti condivisi. Ma anche noi corpi intermedi dovremmo riflettere su come il nostro ruolo di “mediani” nella società si sia ridotto alla pur importante intermediazione di prestazioni del welfare e di lavoro, su come i volti dei cittadini siano spesso diventati solo  deleghe in bianco.

Ecco, invece, il nostro ruolo nuovo e antico: operare per ridare una prospettiva che esca dalla visione limitata dell’io individuale, o del noi settario o particolare, per abbracciare il mondo non come qualcosa da conquistare o difendere dagli altri, ma come un universo di vita, umana e non, alla quale restituire parola.

Significa riconvocare le persone e le comunità ad animare insieme un nuovo racconto popolare fatto di esperienze e opere creative, di beni che tornano comuni, di quotidianità che si distinguano per essere migliori e più giuste, nei territori, nel lavoro, nell’economia, e anche, con autonomia, nella politica (ce n’è tanto bisogno); un racconto che possa tornare a trasformare le fatiche, i bisogni e le istanze individuali o particolari in desideri e impegni collettivi autentici.

Un racconto che re-istituisca con forza il primato di “un’economia che restituisce”, in termini di qualità ambientale e sociale, che distribuisce ricchezza e lavoro, che riconosce le persone eguali nelle proprie differenze, ognuna degna di rispetto e di un proprio prestigio.

Senza una tale prospettiva, dobbiamo esserne consapevoli, potremmo non trovare più quello che coloro che sono minimamente coscienti vorrebbero: una risposta democratica alla crisi globale della democrazia.

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