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Proponiamo un’intervista a Luca Diotallevi, professore straordinario di Sociologia presso l’Università Roma Tre e Presidente dell’Azione Cattolica della Diocesi di Terni-Narni-Amelia.

Come leggere l’attuale stagione politica, nata a seguito del voto del 4 marzo?

Dentro profonde e drammatiche tensioni sociali, con il ‘contratto’ tra Movimento 5 Stelle e Lega si apre una stagione politica nuova. La discontinuità è radicale, indipendentemente dalla durata che questa stagione potrà avere. Il fatto interroga in profondità la coscienza dei cattolici italiani. Perché è in gioco il contributo della politica al bene comune; perché importanti sono le responsabilità che politici cattolici hanno avuto anche nella fase che ci si lascia alle spalle; perché il 4 Marzo una parte non trascurabile del voto dei cattolici è andata ai protagonisti del ‘contratto’; perché ai cattolici è chiesto un discernimento dei ‘segni dei tempi’.

Non è semplice comprendere tutto questo e ancora meno concepire e tentare una risposta all’altezza delle sfide, delle esigenze dell’insegnamento sociale della Chiesa e dei momenti migliori della storia del cattolicesimo politico italiano.

I dubbi sulla linea populista e sovranista di Di Maio & Salvini non obbligano però ad un atteggiamento indulgente sulla precedente fase politica. Discernimento critico del presente e discernimento critico del passato vanno esercitati distintamente perché nelle vicende storiche non c’è necessità. Solo così si sfugge alla trappola secondo la quale o si torna al passato o si sostengono Di Maio & Salvini. Del passato, i momenti migliori furono adeguati a una situazione sociale e a un quadro internazionale che non c’è più. I momenti peggiori offrono molti alibi e qualche ragione del risultato elettorale. Dissentire dalla soluzione prevalsa il 4 Marzo richiede che si identifichino e si distinguano le ragioni della rabbia che l’ha alimentata. Anche le volte in cui è giustificata, però, la rabbia resta sempre cieca. Alle cause della rabbia di oggi forse si deve e si può offrire una soluzione alternativa a quella populista e sovranista, giustizialista e illiberale. Al passato non si può e non si deve tornare.

Per quanta fiducia si possa riporre nelle ‘regole’ e negli ‘arbitri’, la sfida politica che abbiamo di fronte – quella di offrire al Paese una discontinuità politica diversa da quella populista/sovranista – non può essere soddisfatta solamente da qualche buon arbitro o dalla proposta di nuove regole istituzionali (legge elettorale, forma di governo, federalismo, maggiore autonomia delle città, ecc.).

Quale contributo può dare il cattolicesimo italiano all’attuale momento politico in termini di idee e proposte?

Il patrimonio politico dei cattolici italiani è variegato e non è di alcuna utilità né realistico pensare di semplificarlo. Né pensare che si possa fare a meno delle alleanze giuste: allearsi con uomini e donne di buona volontà prima che una necessità è un valore. Entro questi paletti, dal patrimonio ideale e reale del cattolicesimo politico italiano si può estrarre una ‘perla’. Al populismo si può contrapporre il popolarismo (di Sturzo e De Gasperi). Alla idea ‘populista’ di popolo – omogeneo, umorale, soggiogato, egoista – si può contrapporre un’idea ‘popolare’ di popolo: fatto di varietà e differenze, di libertà e responsabilità, di diritti e di limiti; un popolo senza padrone e senza stregone, senza domatore e senza avvocato. Alla tribù si può opporre la civitas. Il caso del giudizio sulla Unione Europea può fornire l’esempio migliore. Al rischio reale di scivolamento di Bruxelles verso il superStato, il popolarismo (di Sturzo e di De Gasperi, di Andreatta e Ruffilli) non si limita a dire un ‘no’ cieco, pericoloso e costosissimo come quello di Di Maio e Salvini. A quel rischio reale si può anche contrapporre un ‘sì’ più grande e più solido, positivo e possibile, radicato nel disegno originario di Adenauer, De Gasperi e Schumann. Non tanti fragili e ridicoli microStati come quelli di Salvini e Di Maio, ma sistemi di sussidiarietà orizzontale e verticale a servizio di una ‘società aperta’ di dimensioni continentali.

La sfida a Salvini e Di Maio non va condotta solo a Roma, ma anche nelle città e nelle regioni. A chi raccoglie umori si deve contrapporre chi collega interessi. Nel Nord di questo Paese sono davvero sicuri di guadagnarci qualcosa con questa Lega e con questo Governo? Nel Sud di questo Paese sono davvero sicuri che convenga scambiare la dignità del lavoro col soldo di nuovi ‘baroni’? La sfida tra populisti e non populisti, tra sovranisti e non sovranisti, può essere la bella sfida politica di una stagione che ci porterà comunque altrove e che potrebbe portarci più avanti invece che più indietro. Da una sfida basata su risposte diverse alle stesse imprescindibili istanze di discontinuità tutti potrebbero guadagnare. Chi intraprendesse questa sfida con spirito e coscienza ‘popolare’ saprebbe anche subito che, come avvenne nel 1919 e nel 1945, mentre ci si batte per la civitas e la ‘società aperta’ in Italia, per una inclusione fondata sulla mobilità sociale e una sicurezza garantita non da fossati ma da opportunità, ci si batte contemporaneamente per le stesse cose in una partita che coinvolge immediatamente tutte le società libere e insieme gli uomini e le donne che non godono delle nostre misure di libertà e che a noi guardano per un futuro migliore.

Le Acli dedicano il loro 51 incontro nazionale di studi al tema della civitas, della necessità di animare la città per immaginare un convivenza diversa da quella attuale, capace di affrontare le questioni sociali più rilevanti, come quella migratoria, superando le paure e le chiusure che oggi dominano la scena sociale e politica. Cosa suggerisce su questo tema?    

Chi si oppone alla prospettiva sovranista e populista del ‘fuori tutti’ dovrebbe riconoscere che per tutte le società libere dell’occidente, e soprattutto per l’Italia, flussi migratori con dimensioni e caratteristiche di quelli attuali rappresentano anche un serio problema e comportano rischi. Naturalmente le migrazioni rappresentano anche e soprattutto una grande opportunità (demografica, economica, culturale, ecc.), ma una lunga sottovalutazione dei rischi (operata dal fronte del ‘dentro tutti’) e una rinuncia (interessata) a governare il fenomeno (realizzata con la ‘clandestinizzazione’ di tutti i profughi e migranti frutto della legge Bossi-Fini) ha fatto sì che i rischi crescessero e che le opportunità non fossero percepite e andassero in gran parte sprecate, dando spazio alla retorica del ‘quanto ci costano’ i migranti. Informare correttamente, fare assistenza, adeguare le politiche di integrazione è necessario, ma bisogna prendere atto che non è più sufficiente, visti gli attuali livelli di paura e rabbia. La paura e la rabbia, spesso fomentate e strumentalizzate, sono ostacoli enormi al diffondersi di informazioni corrette e al formarsi del consenso di cui in democrazia le buone politiche di accoglienza, assistenza e integrazione hanno bisogno per affermarsi.

Ci si deve chiedere se è possibile contrapporre al ‘fuori tutti’ una soluzione diversa, migliore e più efficace (che non sia quella del ‘dentro tutti’)? Se è possibile rendere questa alternativa al ‘fuori tutti’ comunicabile e condivisibile da una parte importante e potenzialmente maggioritaria della opinione pubblica? Per tentare di elaborare una alternativa al ‘fuori tutti’ è necessario riconoscere e rispettare, senza assecondare, la paura e la rabbia con cui la maggior parte dell’opinione pubblica occidentale e anche italiana vive oggi il problema delle migrazioni (tra l’altro sullo sfondo di anni di crisi economica e sociale). Paura fisica e rabbia costituiscono ormai una parte del problema. Ignorarle, porta alla sconfitta anche le proposte più serie e più aperte. Paura fisica e rabbia sono però anche una traccia. Esse rimandano alla questione della forza e del suo uso pubblico. Rimandano alla forza da cui ci si sente minacciati e a quella che vorremmo ci proteggesse.

Si deve riconoscere che in questo momento il problema delle migrazioni costituisce anche certamente non solo, un problema di ordine pubblico: ovvero un tipo di problema che anche per il magistero sociale della Chiesa cattolica interpella la funzione specifica della politica. Per tale magistero, infatti, la politica è chiamata a contribuire al bene comune garantendo e implementando l’ordine pubblico (nel senso proprio del termine: diritti fondamentali, civilizzazione – non negazione – del conflitto, moralità pubblica). Per dimensioni e caratteristiche, i flussi migratori sono ormai e saranno a lungo anche (e non solo) una questione di ordine pubblico. Solamente a partire dal riconoscimento di questo dato si può tentare di costruire una alternativa al ‘fuori tutti’. Non si può escludere a priori che si possano dare circostanze nelle quali è giustificato il ricorso alla forza, in modo proporzionato e responsabile, entro i limiti della legge e del diritto. Così, per un verso si prendono le distanze dal fronte del ‘dentro tutti’ (che questa dimensione del problema ha trascurato e a volte negato) e si porta la sfida al cuore del programma sovranista e populista del ‘fuori tutti’, evitando che sia solo esso a promettere una risposta al senso di insicurezza.

Per il paradigma della sovranità, ossia per il paradigma della polis, la politica dovrebbe essere lo scatolone che racchiude l’intera società. Al senso di insicurezza il sovranismo risponde promettendo di chiudere i confini; poco importa che oggi si viva in un mondo in cui i confini materiali sono impossibili. Tuttavia, nella cultura diffusa in tutta l’Europa continentale pesano quattro secoli e mezzo nel corso dei quali (sino alla metà del ’900) i confini ci sono effettivamente stati. Inoltre, mentre oggi non sono più vive le generazioni che della logica dei confini hanno sopportato i costi terribili, i confini sopravvivono come mito di sicurezza e di identità.

Diversamente da ciò che promettono sovranisti e populisti, secondo il paradigma alternativo, quello della civitas, la sicurezza si può garantire in modo migliore e più efficace innanzitutto garantendo strade e piazze sicure. Strade e piazze: ovvero qualsiasi spazio pubblico (reale o virtuale) di transito, scambio e incontro di persone, conoscenze e cose. Secondo il paradigma della civitas i poteri politici ordinariamente non hanno il diritto di escludere o imprigionare alcuna persona in una qualsiasi area dalla vita sociale: non hanno il diritto di ‘chiudere i confini’ e ‘alzare muri’. Al contrario, hanno innanzitutto il dovere di sanzionare ogni comportamento che nelle strade e nelle piazze violi le leggi a tutela dell’ordine pubblico.

In una civitas anche il processo di identificazione e controllo che può avvenire ai confini ha la sua ragione prima nell’accertamento della capacità del singolo di essere chiamato a rispondere di suoi eventuali comportamenti che mettessero a repentaglio l’ordine pubblico e nella protezione di questo. Nella prospettiva della civitas, la terra non è proprietà dello Stato. La libertà di movimento è un diritto fondamentale di ogni persona e neppure la distinzione tra richiedenti asilo e migranti economici può essere assolutizzata.

Questa diversa idea di politica include quella di poteri politici (tanti, mai uno solo) capaci, cooperando o in competizione, di mantenere strade e piazze sicure ovunque, non solo ‘a casa propria’. Di qui, tra l’altro, nasce il programma di internazionalismo liberale e democratico che, con prudenza e realismo, personalità come Wilson e Sturzo cominciarono a elaborare e perseguire all’indomani della Prima guerra mondiale. Di questo orientamento l’Unione Europea (nella misura in cui si è mantenuta fedele al disegno di De Gasperi, Adenauer e Schumann) è uno dei frutti più alti ed è grazie alla Ue che, dopo secoli, in una così gran parte del continente possiamo godere di una sicura, propizia e attrattiva libertà di circolazione.

Se cediamo all’idea di chiudere i confini, in realtà ci condanniamo a rimanere prigionieri e isolati, con costi inimmaginabili e di ogni tipo. In un mondo nel quale la connessione di tutti con tutti, per tempo riconosciuta dal Vaticano II e da Paolo VI come «segno dei tempi», è divenuta realtà, la rabbia e la paura possono essere strumentalizzate da una politica (quella della polis) che tenta di ricostruire il proprio strapotere promettendo confini di nuovo chiusi. A questa politica può opporsi un’altra politica (quella della civitas) che usa della forza fisica legittima per mantenere innanzitutto ovunque strade e piazze sicure. È a fianco di questa politica che può crescere e trovare consenso democratico anche tutto il resto, davvero tanto (assistenza, inclusione sociale ed economica, valorizzazione di talenti e competenze, ecc.), di ciò che serve ad affrontare il nuovo, grande e non certo episodico fenomeno migratorio.

Quale ruolo possono svolgere le Acli in questa fase politica?

In quanto associazione non dedita primariamente all’attività politica ricostruire il tessuto associativo di questo paese e dei cattolici in particolare, che ha subito un ammaloramento incredibile, per tante ragioni intra-ecclesiali ed extra-ecclesiali. Se poi le Acli sono anche interessate a fare politica il problema che si pone è quello di scegliere insieme o separatamente una cultura politica e fare il lavoro proprio della politica che è fare alleanze, organizzarsi, assumersi le responsabilità. In questo senso credo che il patrimonio del pensiero sturziano, la sua idea di poliarchia sia ancora molto fecondo e utile per intrepretare il tempo attuale, per dare risposte in una fase politica nella quale occorre la consapevolezza di essere una minoranza. Non possiamo certo aspettare di diventare una maggioranza per agire sul piano politico. In questa prospettiva credo che il tema della città sia un tema veicolare perché oggi lo sviluppo non lo fanno gli stati ma le città che sono il luogo delle possibilità, il luogo in cui, seguendo il pensiero del De civitate Dei di Agostino, i poteri si limitano reciprocamente, trovano un’armonia e un equilibrio.

* Testo non rivisto dall’autore

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