Il dibattito sull’eutanasia, e sui temi che in vario modo si appuntano sulle cosiddette questioni di “fine vita”, continuano ad accendersi periodicamente, e continuano a turbare le coscienze, ad alimentare polemiche e scontri, ad animare il confronto politico e mediatico.

Il merito dell’intervento di Benedetto XVI alla Pontificia Accademia per la Vita è, tra i molti, di aver messo al centro alcuni problemi che spesso, per contro, vengono rimossi e messi ai margini del dibattito. Perché in effetti ha riportato la questione dell’eutanasia ad una dimensione che spesso viene negletta, dimenticata, e che invece non può che costituirne il vero e proprio centro dinamico: la dimensione della relazione con il soggetto sofferente.

Il Papa ha puntato infatti il dito, anzitutto, contro una visione utilitaristica della persona, oggi apparentemente dominante; quella per cui le persone, e le vite, hanno un valore misurabile, e per di più misurabile secondo il parametro dell’efficienza, dell’autonomia, della produttività. Ma come è possibile – sarebbe una domanda da porre ai sociologi – che la cultura occidentale abbia smarrito la consapevolezza che il valore della persona non solo non ha nulla a che fare con tali parametri, ma che di principio non è misurabile, è anzi in senso stretto incommensurabile? Perché questo c’è dietro a espressioni obiettivamente seduttive e ipocrite come “una vita indegna di essere vissuta”: c’è l’idea che una persona possa perdere la sua dignità, possa non aver più valore, possa non aver più motivo di stare tra di noi.

E questo, non a caso, è il secondo aspetto che si coglie nelle parole del Papa: l’eutanasia ci mette di fronte alla perdita di valore delle relazioni umane, allo smarrimento dei legami familiari e affettivi, alla marginalizzazione sociale. Perché questo, in effetti, è il rischio davvero mortale che l’eutanasia pone alle società complesse, quello di escludere dalla relazione familiare prima, e sociale poi, i soggetti deboli, magari in nome del rispetto della loro autonomia.

Il malato, infatti, corre il rischio – in un momento di estrema fragilità esistenziale – di essere lasciato drammaticamente solo. Solo di fronte alla scelta di redigere un testamento biologico (che, si badi, non viene mai redatto in momenti felici della propria vita, ma sempre in momenti tragici e drammaticamente cruciali); solo di fronte alle scelte terapeutiche, che in nome dell’autonomia si rivelano un carico esclusivo e indivisibile del malato; solo di fronte ai medici e al personale sanitario di strutture asettiche e impersonali (efficientissime, si spera, ma certamente fredde); solo di fronte alla sofferenza, che egli dovrebbe essere l’unico in grado di gestire, e interrompere con un semplice atto di volontà.

Insomma, la realtà sempre meno evidente, ma sempre più diffusa nelle nostre opulente e efficienti società, è che i malati sono in condizioni di abbandono relazionale. L’autonomia del soggetto, unico vero assoluto dei nostri tempi, e la sua capacità decisionale sembrano averlo posto in una condizione di incredibile solitudine, e anziché potenziarne le capacità sembrano andare nella direzione di una sempre più decisa marginalizzazione dei soggetti non autonomi, fragili, deboli.

Ecco perché l’insistenza del Papa sulle famiglie, e sui rischi che le famiglie bisognose corrono, è davvero preziosa; perché fa capire come la logica dell’efficienza e della qualità (misurabile) della vita possano finire per prevalere sulla solidità dei legami affettivi, in contesti di oggettiva debolezza e di bisogno. Il malato, in altri termini, non è un problema da risolvere, ma un soggetto da accudire. Il che non significa trascurare la sua libertà di scegliere, ma comprenderla e attuarla nel quadro di relazioni protette e rafforzate; anzitutto nell’ambito della relazione familiare, evitando che il malato venga percepito come un peso economico, o un’incombenza eccessivamente onerosa dal punto di vista psicologico o materiale. E quindi attuando politiche concrete di sostegno alle famiglie povere e predisponendo strutture di aiuto (logistico, psicologico, economico…) per chi si trova ad affrontare una malattia lunga e gravosa. Ma il discorso può e deve farsi anche per la relazione con il medico e il personale sanitario; che va valorizzata e sostenuta, evitando che l’autonomia e la libertà del paziente si esauriscano in un mero e banale atto burocratico, nella compilazione di un modulo, nella sottoscrizione di un formulario o di un’autorizzazione.

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