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Il rincorrersi di notizie ostacola da sempre il desiderio di una maggiore comprensione degli eventi: il processo di “sostituzione” assedia quello di “approfondimento” e solitamente l’informazione estiva eccelle nel far leva sulla dinamica usa e getta; insomma, meglio cambiare che sostare, si direbbe.

Però anche il mese di luglio ha dato da pensare, e forse vale la pena di ritornare brevemente ad un appuntamento che presto sarà scalzato nei cassetti della memoria – insieme a tanti altri – dal medagliere delle Olimpiadi. L’estremo oriente ha ospitato, prima degli atleti, il G8 portando alla nostra attenzione il tema della lotta alla povertà: alla vigilia dell’apertura dei lavori è intervenuto in maniera chiara anche Benedetto XVI rivolgendo un appello agli otto “grandi” perché "al centro delle loro deliberazioni mettano i bisogni delle popolazioni più deboli e più povere".
Si è parlato, dunque, di povertà e di impegni, avviando tuttavia un palinsesto già visto: i capi di Governo hanno concordato sulla necessità di agire, sottolineando la gravità del problema, le ONG hanno ancora una volta fatto presente che già gli impegni presi ai precedenti summit sono stati disattesi (nel 2005, in effetti, l’Unione Europea si impegnò a destinare alla cooperazione internazionale lo 0,56% del Prodotto Interno Lordo entro il 2010 e lo 0,70% entro il 2015. Nel 2008 la percentuale raggiunta è solo quella dello 0,20) e, almeno per quanto riguarda l’Italia, le azioni concrete di governo hanno immediatamente smentito i proclami solenni: l’ultimo Dpef stabilisce infatti che l’aiuto pubblico a favore dei Paesi in via di sviluppo venga ridotto di 170 milioni di euro annui a decorrere dal 2009. Al di là delle cifre, il copione è come si diceva noto: la dichiarazione di provvedimenti significativi in favore dei più deboli, la loro immediata smentita nei fatti e la fanciullesca serenità nel procedere sorridenti come se nulla fosse, quasi attendendosi che l’indignazione sarà circoscritta e che comunque non inciderà sul consenso.
Il malcostume politico della promessa da vetrina è solo un aspetto del problema, che ha radici ben più profonde nell’animo umano, molto ben delineate nell’immagine evangelica della semente caduta sui sassi; vale la pena richiamare la spiegazione che accompagna la nota parabola, perché aiuta ad avvicinare la questione nelle sue profondità antropologiche: il seme caduto sul terreno sassoso «è l’uomo che ascolta la parola e subito l’accoglie con gioia, ma non ha radice in sé ed è incostante, sicché appena giunge una tribolazione o persecuzione a causa della parola, egli cade» (Mt. 4,20-21). È dunque esperienza comune quella di entusiasmarsi per obiettivi genuinamente avvertiti come nobili e intensi, ma poi di recedere ritrovandosi a fare i conti con gli ostacoli e le fatiche che il perseguirli comporta. Questa strana legge, che vede il timore della fatica – anzitutto personale – avere la meglio sul bene esigente a cui ci si è inizialmente indirizzati, si realizza implacabilmente se l’uomo «non ha radice in sé ed è incostante», quando cioè il suo interesse è occasionale e gli manca l’esercizio, che è fatto di piccole attenzioni ed allenamenti interiori ed esteriori, tutti orientati nella medesima direzione. Vale a dire che è ben difficile che non solo una classe politica, ma ben oltre una società nel suo complesso acconsenta a rinunciare a qualcosa del proprio in favore dei più poveri se il pensiero, l’atmosfera culturale e la prassi ordinaria non fanno spazio con continuità alle esigenze di chi ha di meno. Astrattamente ed una tantum – in occasione del G8 o magari di qualche evento straordinario – si potrà anche convenire, e senza per questo dover mentire o essere in mala fede, sulla necessità di soccorrere quanti si trovano in situazioni che per noi è persino difficile concepire; ma questo momento di coscienza civile e sociale è destinato ad infrangersi dinanzi alla fatica che comporterebbe il privarsi di parte delle risorse per destinarle ad altri, proprio perché ciò che in fondo manca sono l’attenzione e l’esercizio costanti.
Da questo punto di vista, più che stigmatizzare l’atteggiamento dei sorridenti capi di governo – che certo hanno le loro responsabilità, se non altro perché la politica dovrebbe avere un ruolo di indirizzo dell’intelligenza e non solo di accarezzamento del ventre di una società – forse si tratterebbe di rivedere un complesso di input e di prassi culturali, che quotidianamente allenano gli animi ad esigere per sé, a possedere e a far prevalere i propri desideri. Un allenamento sociale in realtà c’è, ma va in direzione opposta a quella del privarsi di qualcosa a beneficio di altri.
Per alcuni potrà essere ancora una volta interessante osservare che anche nell’era dei G8 l’umanità si trova impegnata con i combattimenti interiori ben noti ai sapienti fin dai tempi in cui i “grandi” erano gli antichi greci o i romani: gran parte delle contraddizioni che osserviamo nella dimensione pubblica, oggi ormai globalizzata, hanno origine nella tensione intima all’uomo tra il prendere per sé ed il donarsi. Jacques Maritain parlava della dialettica tra il ripiegamento nell’individualità e l’espansione nella personalità, per gli antichi – a partire da Platone – si trattava della difficoltà di liberarsi dalle angustie della philautia, dell’amore smodato di se stessi, per maturare nell’attenzione all’altro. A tutti, antichi e contemporanei, era chiaro che sebbene la capacità di donazione costituisse la cifra più piena dell’umano, nondimeno si trattava – e si tratta – di qualcosa di controintuitivo, di non spontaneo: per questo si rendeva necessario un radicamento nella motivazione, favorito da educatori esigenti, ed un esercizio vigile e costante, ovvero ciò che manca al seme tra i sassi.
Si potrà osservare ciò che in fondo è evidente: anche nel tempo dei G8 il terreno da dissodare rimane l’animo umano, ed ancora una volta occorre dar ragione a Charles Peguy, che in una stagione da cui ci si attendeva grandi mutamenti sociali improntati a nuova giustizia, a tutti amava ricordare che «la rivoluzione sarà morale, o non sarà».
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