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A cosa servono tasse e imposte? E’ utile ricordarlo anche e soprattutto perchè sui media e nelle dichiarazioni dei politici sono viste sempre e comunque come un male. Oggi è urgente invertire la rotta degli ultimi anni. Il sistema fiscale può e deve essere uno strumento per ridurre le inaccettabili diseguaglianze che caratterizzano la nostra società. Come primo passo, occorre adottare delle misure per una sua maggiore progressività, in linea con quanto previsto dalla nostra Costituzione

A cosa servono tasse e imposte? E’ utile ricordarlo brevemente, soprattutto se sui media e nelle dichiarazioni dei politici sono viste sempre e comunque come un male. Tra le funzioni di un sistema tributario, la prima è quella di finanziare la spesa pubblica, a partire dai servizi essenziali. Un altro compito fondamentale è quello redistributivo. Osservando la distribuzione della ricchezza prima e dopo il prelievo fiscale su cittadini e imprese è possibile misurare la capacità di uno Stato di ridurre le diseguaglianze, facendo pagare di più ai più ricchi, come previsto dall’Art. 53 della Costituzione (“Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”).

Purtroppo tali funzioni sono sempre più a rischio, e il sistema da progressivo sta diventando proporzionale. Un andamento che caratterizza il nostro fisco da decenni, e che ha subito una forte accelerazione negli ultimi anni. Quando l’imposta sul reddito delle persone fisiche – Irpef – fu istituita nel 1973 erano presenti oltre 30 scaglioni, il più basso al 10% e il più alto al 71%. Oggi gli scaglioni sono 5, l’aliquota più bassa è più che raddoppiata, arrivando al 23%, mentre la più alta è crollata al 43%. I poveri pagano di più, i ricchi di meno.

Questo per le imposte sulle persone fisiche. Ma ancora a monte, il carico fiscale si è spostato dai patrimoni e dalle rendite immobiliari ai redditi, e tra questi si assiste a una detassazione dei redditi di impresa con conseguente maggiore peso su quelli da lavoro. Come accennato, il tutto in un contesto culturale in cui le imposte sono comunque un male, occorre abbassarle anche se questo significa continui tagli alla spesa pubblica e quindi ai servizi essenziali.

Non solo, ma è in continua crescita il peso delle imposte indirette (IVA e simili) rispetto a quelle dirette (come l’Irpef). Il motivo è semplice: il cittadino – elettore – si rende immediatamente conto di quanto paga di imposte dirette, mentre è meno cosciente del peso complessivo di quelle indirette. Peccato che le seconde siano per loro natura estremamente regressive: paghiamo tutti la stessa IVA su un determinato prodotto, quindi in proporzione il peso è tanto più alto quanto più basso è il reddito.

In parallelo l’imposizione sui patrimoni mobiliari e immobiliari è modestissima; le imposte sulle eredità sono tra le più basse al mondo (l’aliquota più alta in Italia è inferiore alla più bassa in Germania); per non parlare di un’evasione fiscale gigantesca, e che va quasi esclusivamente a vantaggio dei più ricchi che possono sfruttare trucchi e scappatoie per non pagare quanto dovuto.

Il risultato è un carico fiscale che grava principalmente sui redditi medio-bassi, e più in generale un fisco sempre meno strumento in grado di ridurre le diseguaglianze di reddito e ricchezza. Tutto questo mentre austerità e tagli alla spesa pubblica sono le uniche parole d’ordine che guidano le politiche economiche. Questo significa tagli ai servizi pubblici e essenziali, ovvero colpire ancora una volta le fasce più povere e deboli della popolazione che non possono permettersi l’accesso a scuole, sanità o trasporti privati.

Siamo di fronte ad un’impostazione in ambito fiscale che segue il dogma mercantilista oggi dominante. Il compito principale dello Stato non è il benessere dei cittadini ma mettere le proprie imprese nelle migliori condizioni per competere. La competitività come obiettivo in sé, e soprattutto una competitività che non si gioca su ricerca e innovazione di prodotto o processo, ma al contrario in una corsa verso il fondo in materia ambientale, sociale – e fiscale. Così l’unica “politica industriale”, oltre alle privatizzazioni per fare cassa, è assicurare sgravi e contributi alle imprese. Politiche unicamente dal lato dell’offerta, per produrre di più e a prezzi più bassi. Ma il problema in Italia è dal lato offerta o nella domanda? Le imprese non investono e non assumono perché il costo del lavoro è eccessivo e ci sono troppe tasse, o al contrario perché le diseguaglianze deprimono la domanda, perché c’è una profonda sfiducia nel futuro, perché queste stesse politiche contribuiscono al peggioramento della crisi?

Politiche quasi esclusivamente lato offerta e spostamento del carico fiscale sono caratteristiche che hanno accomunato tanto i governi di centro-destra quanto di centro-sinistra. Nell’ultima legislatura si sono moltiplicate le misure per detassare le imprese (riduzione aliquota Ires, super e iper-ammortamento, detassazione dei premi di produttività, detassazione investimenti in beni strumentali, ecc…). Dal lato della domanda, l’intervento principale è stato il bonus Irpef (i cosiddetti 80 euro) i cui effetti, tanto dal punto di vista redistributivo quanto di rilancio dei consumi, sono stati però criticati da diverse analisi.

Il futuro potrebbe essere ancora più cupo, considerando che parti rilevanti del mondo politico fondano la propria comunicazione su una “flat tax”. Una stessa aliquota per le imposte dirette avvantaggia principalmente i più ricchi. Se si propone poi un’aliquota bassa in cui “tutti pagano meno”, le possibilità sono due: o le minori entrate significano tagli alla spesa pubblica e quindi ai servizi o si compensa tale ammanco recuperando il gettito tramite altre tasse e imposte, quali quelle indirette, per natura più regressive. In ogni caso gli impatti sono per i più poveri, con ulteriore aumento delle diseguaglianze.

Bisognerebbe andare in direzione diametralmente opposta. Sono diverse le misure che si potrebbero mettere in campo. Aumentare il numero degli scaglioni Irpef, introducendo almeno un sesto scaglione per i redditi oltre i 100.000 euro, con aliquota più alta di quella massima attuale. Diminuire le aliquote per il primo e secondo (redditi fino a 28.000 euro), aumentandole per quarto e quinto scaglione (oltre i 55.000). Rivedere la tassa di successione, riducendo l’attuale franchigia e introducendo anche qui scaglioni ad aliquote progressive. E’ poi inammissibile che in Italia venga tassato quasi esclusivamente il reddito ma non la ricchezza. Dobbiamo riprendere il dibattito intorno a una seria tassazione patrimoniale, che riguardi tanto il patrimonio immobiliare – a partire da quello inutilizzato – quanto quello mobiliare.

In quest’ambito, non si può addurre la scusa di una completa libertà di movimento dei capitali per giustificare l’impossibilità di tassare i patrimoni mobiliari e finanziari. Al contrario, questo è un ulteriore argomento per tornare a parlare di controlli sui flussi di capitale in entrata e in uscita dall’Italia. Un argomento che si lega alla necessità di un serio contrasto ai paradisi fiscali, che non può ridursi a inseguire l’isoletta tropicale di turno. Dobbiamo guardare in casa nostra. Da dove provengono i soldi che finiscono offshore? Chi ne trae beneficio? La proposta, oggi discussa in UE, di obbligo per tutte le imprese di pubblicare i bilanci suddivisi per ogni giurisdizione in cui operano (Country by Country reporting) sarebbe un passo in avanti non solo contro l’evasione fiscale ma anche per contrastare riciclaggio e traffici illeciti.

Queste sono alcune prime proposte, alle quale possono seguire diverse altre. La cosa fondamentale è invertire la rotta degli ultimi anni. Il sistema fiscale può e deve essere uno strumento per ridurre le inaccettabili diseguaglianze che caratterizzano la nostra società. Come primo passo, occorre adottare da subito delle misure per una sua maggiore progressività, in linea con quanto previsto dalla nostra Costituzione.

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