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L’esito referendario, gli atteggiamenti politici e le decisioni prese dai leaders nei giorni successivi, pongono un interrogativo circa la via fin qui percorsa negli ultimi decenni, che ha privilegiato il ruolo maieutico delle regole rispetto alla ri-creazione delle soggettività del politico…

L’esito referendario – e più ancora gli atteggiamenti politici e le decisioni prese dai leaders nei giorni immediatamente successivi – pongono nella fase che si è aperta un interrogativo circa la via fin qui percorsa negli ultimi decenni, che consiste nell’avere privilegiato il ruolo maieutico delle regole rispetto alla ri-creazione delle soggettività del politico. Le due cose e i due piani, non soltanto in teoria, devono coesistere. Quel che occorre, in particolare nell’area residua di centrosinistra, è un riposizionamento, anche operativo, dell’attenzione e della voglia, se c’è, di ri-costruire.

Grillo e Casaleggio hanno con la pazienza di anni assemblato un partito inedito, discriminante, a mio giudizio democraticamente impraticabile e politicamente pericoloso. Salvini ha mantenuto la tradizionale struttura della Lega mutandone la visione e il sesso (federalismo, sindacalismo territoriale, piccole patrie). Impressionante la disinvoltura culturale che ha consentito alla Lega di inseguire la “sovranista” Marine Lepen. Berlusconi, che negli ultimi mesi, insieme a qualche residuo fuoco d’artificio, va dicendo anche cose politicamente sensate, è tutto teso a ritrovare una linea di galleggiamento per i ruderi del partito-azienda e il proprio destino personale. Le estreme, di destra e di sinistra, non smettono l’esercizio di darsi un morso al collo, arrampicandosi sui vetri di sistemi elettorali che hanno generalmente lo scopo di penalizzarle.

Per tutti, il tema impervio restano la visione e il progetto, e soprattutto l’organizzazione sul campo di una cultura politica, insieme alla selezione della classe dirigente, che hanno mostrato di non potere essere bypassate dalla solitudine della leadership avvolta nelle sue diverse narrazioni.

Lo spettacolo di un Parlamento morituro è la mesta epifania di una politica senza fondamenti, senza la capacità di dare identità e neppure il nome a chi a qualche titolo vi prende parte: iscritti? militanti? volontari? professionisti? tifosi? Non è un rifugio allusivo il termine meticciato dall’inglese di democrat? Lo slogan: “il futuro è adesso” è tra i più disperati che mi sia capitato di leggere. Ma come, questo vuoto è destinato ad accompagnarci da qui all’eternità? (Come sfogliare le molte pagine di La storia infinita di Michael Ende).

Dunque parrebbe necessario e urgente riaprire una fase nuova della politica, dopo che il mantra generale e vincente della rottamazione ha dato i suoi frutti, che palesemente appaiono i frutti di una stagione, e non di un lungo corso capace di futuro e di storia. Perché la rottamazione ha inevitabilmente il fiato corto e, viaggiando a velocità infinitamente superiore rispetto ai ritmi “classici” e desueti, può anche porre, prima del previsto e dell’augurabile per i protagonisti, il problema di rottamare i rottamatori: non con D’Alema, ma con una nuova infornata di rottamatori di età variabile.

La narrazione pubblicitaria delle leadership e del loro contendere era destinata a lasciare il passo al confronto tra la leadership e la testa dura dei fatti quotidiani e la prospettiva storica. La politica con i piedi per terra e per gli uomini, direbbe Gramsci, “in carne ed ossa” non è un torneo di fascinosi cavalieri dal nome di Lancillotto o Ivanhoe, ma un inevitabile e duro confronto con la realtà dei problemi da risolvere, dove il fascino viene dopo i bisogni collettivi. Il torneo delle leadership fa invece parte della sagra di una politica autoreferenziale.

Altrimenti non ci spiegheremmo perché gli inglesi abbiano votato nell’estate del 1945 Clement Attlee invece di Winston Churchill, che aveva vinto la guerra. E perché Churchill, rieletto nel 1951, si sia guardato bene dal manomettere o stravolgere il welfare e le riforme sociali prodotte dai laburisti. (A smantellarle provvederà – ma decenni dopo – Lady Tathcher). Credo infatti che i sudditi del Regno Unito che votarono Attlee non avessero dubbi sulla diversa statura dei due leaders; quello che alla stragrande maggioranza di loro faceva problema era invece il sicuro conservatorismo del leader dei Tory. Insomma, continueremo a subire il fascino della leadership – e funziona pure – ma il confronto tra le politiche non può essere ridotto a un torneo cavalleresco, dove peraltro non mancano i colpi da squalifica e l’interventismo dei giudici.

In questo senso, e provo spericolatamente a sintetizzare, la politica italiana attraversa un crinale: alle spalle la stagione delle grandi narrazioni. Di fronte l’orizzonte meno enfatico, meno pubblicitario, e anche più grigiamente realistico, della democrazia governante. Che più che di narrazioni ha bisogno di strumenti. Pensanti (cioè capaci di progetto e di programma), democratici, efficienti. In quest’ordine. Li potremo pure chiamare postpartiti; si tratterebbe di un’etichetta meno inquietante di postverità.

Rottamare humanum est. Talvolta politicamente doveroso e necessario. Ma di rottamazione non si vive nel tempo lungo. Devi darti gli strumenti per la costruzione di un credibile futuro politico. Perché i fantasmi del passato possono essere usati come spaventapasseri per una sola stagione estiva. Non saranno D’Alema e neppure Bettino Craxi resuscitato dalla Tunisia a legittimare e guidare la restaurazione prossima e ventura. Sgomberato il terreno, devi aprire sul campo, non soltanto nell’immaginario e in televisione, il nuovo cantiere. Per riuscirci devi fare, insieme e preliminarmente, il punto sulla situazione. Che è un processo collettivo, e non da ufficio studi.

Dopo una sconfitta, soprattutto se grave, ed anche se la giudichi immeritata, ti dovresti fermare e fare un’operazione che nel linguaggio del cardinale Martini e di papa Bergoglio, entrambi gesuiti, si chiama discernimento.

Il problema cioè non è né, detto con terminologia nuova, la “ripartenza”, o con il vecchio linguaggio, il “contropiede”: perché la politica non è una partita di calcio e tantomeno di basket. È per questo che dalla congiuntura convulsa che stiamo attraversando (non meno convulsa nell’America di Trump e nell’Europa di Angela Merkel che nel nostro Bel Paese) non si esce a mio giudizio se non riposizionando l’attenzione dalle regole, costituzionali ed elettorali, sui soggetti della politica. Ovviamente le regole continueranno ad inquietare la politica italiana come l’ombra di Banquo nel Macbeth; ma senza porre contemporaneamente mano alla ricostruzione dei soggetti sarà come scrivere ogni volta sull’acqua: nel corsivo del proporzionale, o nello stampatello del maggioritario.

So benissimo che tanti della cosiddetta area riformista usano perfino le moltitudini di Toni Negri per escludere la presenza di soggetti possibili, ma io credo che il resto del mondo non sia tutto retrò e fuori strada quando continua a servirsi della democrazia dei partiti. È bastata mezza giornata a Cameron, pur avendolo escluso, per dare le dimissioni. E una settimana ai conservatori per trovare il nuovo leader della nazione in Theresa May. Che cosa hanno fatto funzionare? La democrazia dei partiti.

Sarà bene pensarci. E certamente non sto proponendo di copiare, ma di aprire una riflessione servendosi di un metodo tradizionale nella cultura politica e tra i costituzionalisti: la comparazione.
Altrimenti? Si può perdere e bisogna saper perdere. Meglio il refrain di questa canzone che la struggente nostalgia melodica del grande Sergio Endrigo: la musica è finita, e gli amici se ne vanno… (I compagni lo hanno fatto da tempo).

La cosa principale è ricostituire un punto di vista, che trovi la giusta collocazione tra la riprogettazione delle regole elettorali e l’attuale antropologia politica degli italiani, intesi come cittadini partecipanti, e non soltanto come elettori-consumatori catturabili dal consenso. Qui lo spazio dei “corpi intermedi” cari alla dottrina sociale della Chiesa.

Qui esiste una sorta di differenza aclista, avendo negli ultimi decenni l’associazione affrontato da protagonista le diverse tappe dell’ingegneria elettorale, a partire dal referendum di Mariotto Segni del giugno 1991. Che per noi vide come punto di riferimento e consigliere principale Roberto Ruffilli, il costituzionalista vicino a Ciriaco De Mita che fu abbattuto nella sua abitazione di Forlì da un commando delle Brigate Rosse.

Il suo obiettivo e il suo mantra erano il cittadino come arbitro”. Per questo insieme cercavamo una sortita, una sorta di passaggio a nordovest per una politica incartata e incapace di riforme, e soprattutto di riformare quei partiti sui quali era sorta e si era sviluppata la Repubblica nata dalla Resistenza. La sfida era favorire e regolare la partecipazione, perché la governabilità fosse all’altezza della nostra tradizione democratica. E perché senza governabilità una democrazia deperisce, ma il massimo della governabilità può coincidere con il minimo della democrazia.

Il referendum passò, ma era stato fortemente disboscato dalla Consulta. Incominciavamo quel lungo (e inutile) calvario lungo il quale l’illusione diffusa era che, mutando le regole, queste sarebbero risultate maieutiche di nuovi soggetti politici. Non è andata così, e il mio modesto avviso è che sarà bene ripartire, oltre che dalle regole, anche dai soggetti, ossia dai partiti.

Vi è chi dichiara che ne faremo di nuovi, ma “senza correnti”. Ma può esistere un partito senza correnti, senza dialettica democratica e senza ricerca, anche all’interno, dell’alternativa? Vedo proporre ricette draconiane. Mi viene in mente George W. Bush che, per arginare il fenomeno degli incendi diffusi negli Stati Uniti d’America, propose l’uso generalizzato dalla motosega: se tagli i boschi, spariscono gli incendi…

E invece la prima cosa da osservare è che la transizione infinita non è ancora finita. Non solo: non è neppure “quasi finita”, come dice un bel libro sulla riforma costituzionale di Stefano Ceccanti. Ha ancora ragione Gabriele De Rosa. La transizione non ammette il quasi e neppure un poco. O è finita, o non è finita. E purtroppo pare destinata a durare ancora a lungo, in Italia, in Europa e nel mondo globalizzato.

Tutti d’accordo dunque sul cambiamento. Ma quale, e a partire da dove e per dove approdare? Con tutto il complicatissimo problema delle fasi intermedie per raggiungere la nuova meta. Mi pare la fase che attraversiamo in parte simile a quella che a partire dalla metà degli anni Sessanta, dopo le prime lotte che aprirono al Sessantotto e dopo il grande evento storico del Concilio ecumenico vaticano II, vide in Italia il proliferare di una serie di tentativi e di raggruppamenti che furono sbrigativamente etichettati come “gruppi spontanei” e studiati come “Italia del dissenso”. Una grande effervescenza sociale e culturale – sull’area di quelli che la dottrina sociale della Chiesa chiama corpi intermedi, ma non soltanto – alla ricerca di nuove forme del politico. Un processo ovviamente da intendere e partecipare, senza la pretesa di configurarne da subito le tipologie. Pronti comunque a cogliere quelli che siamo stati abituati a chiamare i “segni dei tempi”, ovviamente non privi di potenzialità divaricanti e di contraddizioni.

Ci sono dunque cose nuove da cercare e da mantenere, e cose destinate a ritornare. Non fu questa del resto l’attitudine del cattolicesimo democratico, che vide non a caso Jacques Maritain recuperare l’antimoderno per una più profonda intelligenza del moderno? Giuseppe Lazzati aveva sintetizzato il punto di vista rieditando una celebre massima di Sant’Ambrogio: “Cercare sempre cose nuove, mantenendo il meglio delle antiche”.

Ovviamente ignoro se questo film sia in lavorazione da qualche parte. Mi limito a dire che un percorso politico che insista unicamente sul mutamento delle regole senza curarsi dell’organizzazione della partecipazione democratica – della sua identità e, uso un termine ostrogoto, soggettivizzazione – esula totalmente dal mio attuale e futuro sogno di mondo.

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