Per l’istruzione, l’introduzione dell’autonomia regionale, non produrrebbe semplici cambiamenti di natura gestionale, organizzativa, contrattuale. Il punto di importanza capitale per il futuro degli italiani sta nel fatto che si lega il tema dell’autonomia differenziata al gettito fiscale, introducendo il principio secondo il quale l’accesso al diritto all’istruzione non è più diritto uguale per tutti ma si differenzia in funzione della residenza. Così, l’istruzione degli italiani da fatto di prima rilevanza nazionale, uguale per tutti, come sancito dalla Costituzione, diventa questione di ogni territorio in via separata e distinta da ogni altro territorio…

Quali sono i cambiamenti che può introdurre nel mondo dell’istruzione il regionalismo differenziato sulla base delle bozze di intesa per Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna?

Per l’istruzione, l’introduzione dell’autonomia regionale, non produrrebbe semplici “cambiamenti” di natura gestionale, organizzativa, contrattuale, che pure paiono di notevole entità. Il punto di importanza capitale per il futuro di tutti gli italiani sta nel fatto che si lega il tema dell’autonomia differenziata al gettito fiscale, così introducendo il principio secondo il quale l’accesso al diritto all’istruzione non è più diritto uguale per tutti ma si differenzia in funzione della residenza. Dunque, la volontà di trattenere la quasi totalità del gettito fiscale (il Veneto propone i 9/10) nel territorio regionale, ferme restando le risorse complessive dello stato e senza un accordo – per l’istruzione – sui livelli di prestazione da garantire a tutti indipendentemente dal territorio nel quale si vive (LEP) [1], introduce un elemento di differenziazione nell’accesso a un diritto primario, che diventa invece subordinato alla ricchezza del territorio. Così, l’istruzione degli italiani da fatto di prima rilevanza nazionale, uguale per tutti, come sancito dalla Costituzione, diventa questione di ogni territorio in via separata e distinta da ogni altro territorio.

Questo idea di regionalismo minaccia le basi dello stare insieme, il futuro della cultura comune degli italiani mentre riduce l’autonomia di scuole, comuni, ambiti territoriali. E non può certo essere evocato un eccesso di centralismo nazionale da superare. Infatti, le identità territoriali in materia educativa e formativa sono da tempo pienamente riconosciute da leggi, misure amministrative, indicazioni pedagogiche e indirizzi didattici consolidati: la formazione professionale è governata dalle regioni, dialetti e lingue locali hanno piena cittadinanza negli indirizzi di studio (che da tempo non assumono la rigidità dei programmi anche per consentire le giuste articolazioni territoriali), i comuni sono garanti e controllori dell’obbligo d’istruzione e formazione, l’autonomia scolastica consente largo spazio di decisione in materia sia didattica sia organizzativa per rispondere alle culture e ai bisogni educativi del territorio, hanno valenza territoriale (regionale, comunale e per ambiti territoriali e città metropolitane) la programmazione delle tipologie e del dimensionamento delle scuole nonché l’integrazione ed estensione dei contenuti didattici. Dunque, la proposta di questo regionalismo differenziato non risponde a esigenze di autonomia, articolazione locale e flessibilità che sono già garantite e operanti. La trattenuta della stragrande maggioranza delle risorse nelle regioni dove quelle tasse vengono pagate secondo decisioni prese prioritariamente a livello di governo regionale (non tra comuni e ambiti territoriali) crea, invece, un neo-centralismo di stampo regionalistico secondo il quale, per esempio, i comuni del Bellunese o la città metropolitana di Milano rischiano di avere meno autonomia dalla regione di quanto oggi ne hanno dallo stato, condizionate da un erogatore più vicino e più accentratore di prima.

Al contempo la proposta di regionalismo differenziato smantella il senso del comune imparare tra italiani in quanto tende a sminuire la condivisione del nostro patrimonio comune fatto di idee e cultura che attraversano, insieme, le regioni e sono il frutto storico di scambi millenari. Rischiamo una progressiva elisione dell’aggettivo “italiano” riferito a letteratura, storia economica, politica e sociale, arte, scienze, memorie, scambi in ogni ambito tra parti del Paese.

Ovunque nel mondo la scuola della nazione è custode geloso della costruzione di conoscenze e competenze super-territoriali, che partono dal locale per diventare nazionali e sovranazionali, così riproducendo il senso di una nazione attraverso le generazioni grazie a processi di apprendimento che uniscono, per modi, contenuti, indirizzi-guida e che guardano all’insieme nazionale per poter guardare anche oltre, all’Europa, al mondo. Invece di questa prioritaria attenzione, nella bozza di accordo tra le tre regioni e il governo del 20/12/2018, si coglie una forte propensione a volere avocare alla regione gli architravi che sorreggono il comune conoscere che è, invece, dell’Italia [2]. E non si tratta di una minaccia astratta. Il rischio è concreto perché i testi di Veneto, Lombardia, Emilia-Romagna, sia pure in modi diversi, spingono a usare i soldi delle tasse di chi vive nella regione per decidere sul come scegliere, formare, pagare e valutare i docenti che insegnano discipline la cui organizzazione curricolare che può essere determinata anche in modo distinto da un comune riferimento valido in tutta Italia, entro scuole che devono seguire dettami regionali sul come concretamente viene condotto lo studio e/o come vengono inclusi i ragazzi e/o selezionati i criteri di priorità per le diverse questioni di vita scolastica.

Ogni cambiamento in campo educativo assume una valenza concreta per la vita e il futuro di bambini e ragazzi. E va, perciò, maneggiata con estrema attenzione. I cambiamenti non precipitano mai su un contesto neutro, indifferenziato, asettico, privo di differenze e disuguaglianze. Al contrario, intervengono o a riparazione di disuguaglianze o a conferma e/o accentuazione delle stesse. I cambiamenti in campo normativo che interessano il rapporto tra territori e le persone che vi vivono all’inizio della vita, dunque, riguardano la grande questione planetaria del diritto all’apprendimento che è uguale per tutti e per ciascun bambino/a e ragazzo/a del mondo – sancito dalla Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia oltre che dal nostro dettato costituzionale.

Il regionalismo differenziato interviene, nei fatti, minacciando il principio di equità relativo al diritto a istruzione perché conferma e aggrava le ineguaglianze esistenti.  Lo vediamo dai dati.

Qui [3] è drammaticamente mostrata la situazione, relativa ai diversi territori d’Italia, della perdita precoce di possibilità di sapere per le persone all’avvio della vita adulta. Si tratta della percentuale di ELET – early leavers from education and training: i ragazzi/e che all’età di 25 anni non hanno in tasca un diploma di scuola superiore né una qualifica professionale spendibile sul mercato legale del lavoro e che, ben prima del raggiungimento della maggiore età avevano accumulato ritardi nel sapere, demotivazione dovuta a molte e diverse cause sociali, culturali, personali, tutte legate alle povertà materiale delle famiglie, dei territori e, al tempo stesso, alla mancanza di servizi educativi e sociali e di occasioni di conoscenza, scoperta, fruizione di cultura effettivamente disponibili lì dove vivono. Sono nel Mezzogiorno, in media, oltre il 20 % ma nelle aree urbane meridionali, lì dove è concentrata la povertà educativa minorile, possono raggiungere il 30%. Sono percentuali che anche nel Nord conoscono forti disuguaglianze territoriali, soprattutto tra periferie povere e aree protette.

A monte di questo fallimento formativo, che misuriamo all’età di 25 anni, vi sono, dunque migliaia di storie di mancato o parziale fruizione di un diritto inalienabile, spesso maturate fin dalla prima infanzia. In particolare sono di enorme rilevanza in Italia le disuguaglianze territoriali relative a:

  • alti tassi di abbandono scolastico vero e proprio uniti a molte ripetenze,
  • alto numero di ragazzi che, anche quando promossi, hanno bassi livelli nelle conoscenze relative a matematica di base, lettura e comprensione dei testi, scrittura funzionale, mondo delle scienze, comprensione dei riferimenti spazio-temporali storico geografici (sono acquisizioni irrinunciabili ai fini dello sviluppo sociale e personale nonché per entrare con una qualche dignità nel mercato del lavoro e per esercitare la cittadinanza e che vengono registrate con serietà metodologica e costanza nel tempo sia sulla generalità della popolazione – INVALSI – sia su base campionaria molto rigorosamente sorvegliata – OCSE- Pisa e OCSE Piaac) [4],
  • forte concentrazione della povertà educativa minorile secondo l’indice IPE [5], intesa sia come condizione di povertà multidimensionale all’inizio della vita sia come prolungamento dell’esclusione per mancanza o debolezza di politiche e dispositivi compensativi presenti davvero e costanti nel tempo [6].

Queste disuguaglianze, da tempo ben documentate, disegnano uno scenario fatto di aree povere, intermedie e ricche. Tali differenze aumenteranno con il regionalismo differenziato che è profondamente iniquo perché si fonda sulla creazione di sistemi regionali con risorse dedicate alla scuola regolate sulla base della fiscalità regionale da conservare in loco, a svantaggio di altre aree del Paese per le quali viene a mancare o diminuisce gravemente l’azione compensativa dello stato per combattere le disuguaglianze come prescrive l’art. 3 della Costituzione.

Si tratta, dunque, di fermare, questa prospettiva, che fa accrescere le iniquità, crea differenze inaccettabili e anche potenziali conflitti tra territori e tra persone, lede diritti in modo ancor più odioso perché riguardano bambini/e e ragazzi/e. In un Paese, poi, che fa sempre meno figli[7], davvero non possiamo permetterci – anche in termini meramente economici – di consolidare la perdita alla prospettiva del sapere di un quarto della popolazione per salvaguardare l’egoismo delle aree più ricche.

 

 

Note

[1] La ricognizione dei LEP e dei relativi costi standard doveva essere effettuata dalla SOSE, in collaborazione con l’ISTAT e avvalendosi della struttura tecnica di supporto della Conferenza delle Regioni e Province autonome presso il Centro Interregionale di Studi e Documentazione (CINSEDO) sulla base della metodologia e il procedimento individuati per gli enti locali dal d.lgs. n. 216/2010 (art. 13 del D.lgs. 68 del 2011) ma per la scuola non è avvenuta.

[2] Nell’intesa emiliana leggiamo la richiesta (art. 1 comma b) di “particolare autonomia” in tema di “istruzione tecnica e professionale, istruzione e formazione professionale e universitaria” mentre nel Veneto e Lombardia (art 2. comma 2, 3) addirittura in “materia di norme generali sull’istruzione”.

[3] Istat, 2018.

[4] Un possibile indizio della capacità del sistema nel suo complesso e della scuola in particolare, di intervenire con una discriminazione positiva sugli apprendimenti e sull’acquisizione delle competenze può essere il livello di varianza tra scuole quale emerge dalle indagini nazionali e internazionali. Ebbene, la varianza tra scuole indica il tasso di variabilità dei risultati degli studenti nelle prove nazionali. Si tratta di analisi che vanno intrecciate con gli indici socio economico culturali delle scuole e degli studenti. In estrema sintesi si può affermare che la varianza all’interno delle classi può essere ricondotta alle caratteristiche individuali degli alunni mentre la varianza tra scuole indica la capacità del sistema di intervenire in maniera perequativa. Chiarisce INVALSI[4]: La variabilità tra scuole e classi è un importante indicatore del grado di equità del sistema educativo, cioè della sua capacità di assicurare a tutti gli studenti eguali condizioni di insegnamento- apprendimento, almeno nel tronco comune del percorso scolastico… (in un sistema scolastico ideale) tutta la variabilità dei risultati si ritroverebbe all’interno delle classi e delle scuole, mentre la variabilità tra queste ultime sarebbe nulla o quasi. È questa la situazione che si avrebbe se tutti gli alunni fossero assegnati alle scuole e alle classi in maniera completamente aleatoria, indipendentemente dallo status sociale e dal grado di capacità di ciascuno. Le prove nazionali standardizzate somministrate dall’INVALSI evidenziano una variabilità dei risultati che raggiunge picchi significativi nelle aree del Sud. La varianza tra le scuole in seconda primaria in matematica al Sud raggiunge il 22.4, nelle isole il 28.2 mentre nel Nord Ovest arriva solo al 9.8 (INVALSI, Rilevazioni nazionali sugli apprendimenti).

Queste differenze parlano chiaramente di una sostanziale omogeneità di provenienza socio economico culturale degli alunni all’interno delle singole scuole (sia in termini di provenienza famigliare sia in termini di omogeneità nell’offerta territoriale di servizi, occasioni di apprendimento informale, offerta culturale, sociale, di aggregazione). Se dunque la varianza tra scuole rappresenta le differenze tra territori, i risultati che ci forniscono le prove nazionali relative alla classe seconda della primaria testimoniano del divario esistente nelle condizioni di partenza dei nostri alunni. Differenze in ingresso che, se si replicano uguali in uscita, indicano che il sistema (scuola, altre agenzie formative, servizi culturali territoriali etc.) rappresenta e riproduce il reale senza riuscire ad intervenire in maniera decisiva. Una bassa varianza tra scuole e classi è, infatti, considerata misura dell’equità di un sistema, indica la capacità dello Stato di offrire strumenti perequativi, di modificare la forbice sociale. Così, se si esaminano i ragazzi con i livelli più bassi di competenza in matematica di base e nella lettura/comprensione (low achievers), il 36% dei 15enni figli di poveri non raggiungono le competenze minime in matematica e il 29% in lettura e comprensione di semplici testi. E, ancora una volta, vi è un forte divario territoriale: i 15enni con basse conoscenze in lettura e in matematica sono, rispettivamente, il 23% e il 20% ma al Sud sono il 34 % e il 30%. (OCSE, PIAAC-OCSE Programme for the International Assessment of Adult Competencies, 2015).

[5] La definizione di povertà educativa e la costruzione dell’Indice IPE sono state elaborate da Save the Children con il concorso di un comitato scientifico composto da: Andrea Brandolini (Banca d’Italia), Daniela del Boca (Università di Torino), Maurizio Ferrera (Università di Milano), Marco Rossi-Doria (Esperto di educazione e integrazione sociale), Chiara Saraceno (Università di Torino). Per la costruzione dell’IPE 2016, è stata adottata la metodologia AMPI (Adjusted Mazziotta-Pareto Index) ideata da ricercatori dell’ISTAT.

[6] L’IPE rileva da qualche anno disuguaglianze territoriali profonde relative a più indicatori tra loro correlati:  povertà multifattoriale delle famiglie, tassi di dispersione scolastica, mancate occasioni culturali e sportive nelle vicinanze, mancanza di nidi, assenza di collegamento internet, di tempo pieno o prolungato nella scuola di base, alti tassi di mancata acquisizione dei livelli minimi di competenza in scrittura/lettura e matematica, ecc. Per la definizione della povertà educativa è rappresentato dalla definizione prodotta da Save the Children nel 2014 (Save the Children, La lampada di Aladino. L’indice di Save the Children per misurare le povertà educative e illuminare il futuro dei bambini in Italia, Roma, 2014), che definisce tale fenomeno come “la privazione, per i bambini e gli adolescenti, della opportunità di apprendere, sperimentare, sviluppare e far fiorire liberamente capacità, talenti e aspirazioni”. In tale definizione di Save the Children, la povertà educativa assume un carattere fortemente “multi-dimensionale”, appunto.

[7] Siamo un Paese che fa sempre meno figli. Oggi per ogni 100 persone con meno di 14 anni ve ne sono 172,9 con più di 65 anni, mentre la media europea, già altissima se si guarda il mondo, è 96.  Nel 1961 erano 38,9, nel 1971 erano 46,1, nel 1981, 61,7, nel 1991, 92,5, nel 2001, 127,1.

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