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Fuori dal ring “nordisti–sudisti” ci si può dunque chiedere se e a quali condizioni un eventuale nuovo bilanciamento di poteri possa combinarsi con un avanzamento dei diritti sociali, e dunque della nostra democrazia. Così impostata, la riflessione potrebbe coinvolgere anche gli attori non istituzionali, come le organizzazioni civiche, trasformandosi in un’opportunità per riflettere sul superamento delle diseguaglianze e sulle strategie di sviluppo sostenibile per il Paese, tutto insieme…

Tra i diciassette obiettivi dell’Agenda mondiale dello sviluppo sostenibile 2030 ce n’è uno, il decimo, che sembra riassumerli tutti: ridurre le diseguaglianze.

Le macroscopiche diseguaglianze che segnano il nostro mondo pesano anche all’interno dei confini del Paese. Per i bambini, questo significa mancate opportunità di crescita, aspirazioni per il futuro bloccate sul nascere. La povertà minorile è una vera emergenza silenziosa in Italia, con più di un milione e duecentomila bambini e adolescenti in condizioni di povertà assoluta.  La principale agenzia educativa, la scuola, in molti casi non riesce a colmare i divari di partenza prodotti dallo status socio-economico delle famiglie, dall’origine straniera, dallo stesso territorio di periferia dove si cresce. I dati parlano chiaro: la povertà materiale si traduce in quella che, con Save the Children, abbiamo definito povertà educativa, ovvero l’impossibilità, per i bambini, di apprendere, sperimentare, sviluppare e far fiorire liberamente le proprie capacità e i propri talenti.

Ciò che più colpisce – e dovrebbe indignare – è che l’investimento pubblico non va oggi a colmare questi divari, ma, piuttosto, li accentua. Se guardiamo le mappe territoriali della povertà minorile in Italia, scopriamo facilmente che le aree dove si addensano i problemi sociali ed economici più acuti sono le stesse aree dove la rete dei servizi socio educativi è più debole: mancano asili nido e servizi per la prima infanzia, scuole a tempo pieno, biblioteche e centri sportivi, servizi sociali, spazi per i giovani. Sono territori – periferie geografiche e sociali – dove l’impatto sui bambini della condizione di disagio familiare è amplificato dalla assenza dei servizi educativi e di welfare. In altre parole, piove sul bagnato.

Se questa è la situazione di partenza, se solo due bambini calabresi su cento hanno accesso ad un asilo nido (a fronte dei venticinque in Emilia Romagna [1]), se la dispersione scolastica colpisce il 23,5% degli adolescenti siciliani e il 6,9% dei coetanei in Veneto [2], se addirittura la mortalità infantile, pur attestandosi il nostro Paese in un’area di eccellenza nel mondo, vede aprirsi una pericolosa faglia tra le percentuali del nord e del sud (con il 4,8 per mille della Calabria a fronte dell’1,7 dell’Umbria [3]). Se tutto questo è vero, la prima preoccupazione nel disegnare una distribuzione dei poteri tra stato centrale e regioni dovrebbe essere quella di accorciare le distanze per garantire equità e diritti essenziali.

Assumere questo punto di vista non significa sostenere che una gestione in mano allo Stato centrale sia, di per sé, garanzia di riduzione delle diseguaglianze. I fatti già dimostrano che non è così. La vicinanza delle istituzioni regionali e locali ai cittadini rappresenta, in molte circostanze, un elemento determinante per l’efficacia delle politiche pubbliche, nella logica della sussidiarietà.

Quasi venti anni fa, la legge di riforma dei servizi sociali aveva, del resto, provato a definire una governance dei sistemi di welfare attribuendo responsabilità chiare e differenti all’autorità centrale, regionale e territoriale. Al governo nazionale spettava la definizione dei livelli essenziali di assistenza, mentre le comunità territoriali avrebbero dovuto provvedere, in modo partecipato, alla costruzione dei “piani di zona”, modellati su effettive necessità e risorse.

Tranne virtuose eccezioni, questo disegno non si è tuttavia realizzato, soprattutto a causa della mancata definizione, sul piano nazionale, di quella piattaforma di diritti universalmente garantiti ed esigibili – i liveas – sui quali si sarebbe dovuta disegnare la articolazione dei servizi. Anche la riforma del titolo V della Costituzione ha previsto un bilanciamento tra aree di responsabilità regionali e diritti esigibili per tutti, grazie alla determinazione di livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali da garantire sull’intero territorio nazionale. Anche in questo caso la definizione dei Livelli è rimasta, come noto, al palo.

A distanza di anni, la definizione di una piattaforma di diritti esigibili che tenda, progressivamente, a ridurre le profonde diseguaglianze radicate nel Paese rappresenta ancora un tema ineludibile per promuovere un sistema di autonomie più avanzato che avvicini davvero i cittadini alla vita pubblica e che dia corpo al principio di sussidiarietà, non solo verticale ma circolare, puntando sull’esercizio della cittadinanza attiva, secondo quando previsto dall’articolo 118 del titolo V della Costituzione.

Cercando di andare oltre le logiche di schieramento, quando ancora non è chiaro quale sarà il destino delle richieste di maggiori poteri avanzata da tre Regioni, è possibile riflettere su alcune linee di orientamento che dovrebbero guidare una eventuale riforma dei poteri centrali, regionali e locali.

Il primo passo da compiere per un’effettiva riforma consisterebbe oggi nel definire i livelli essenziali. Fare in modo che i pilastri del nostro sistema di welfare – come l’istruzione e la salute – trovino finalmente, nella definizione di questi livelli, un ancoraggio saldo alla Carta Costituzionale. Al contrario, in una condizione come quella che vive il nostro Paese, la sola idea di un sistema di istruzione pubblico “regionalizzato” porterebbe a cancellare, nei fatti, ogni prospettiva di superamento delle diseguaglianze educative.

Definire i livelli essenziali dovrebbe aiutare anche a scongiurare, per il futuro, che un singolo Comune possa decidere di escludere un bambino dall’accesso alla mensa scolastica perché i genitori sono in ritardo nei pagamenti, producendo un danno educativo incalcolabile sul bambino stesso e su tutti i suoi compagni. Stabilire i livelli essenziali come garanzia di diritti esigibili è un processo difficile, come si è visto in questi anni. Ma se davvero si intende prendere sul serio l’impegno per raggiungere gli obiettivi di sviluppo sostenibile 2030, il nostro Paese dovrebbe fare un passo deciso in questa direzione. Magari utilizzando e dando sostanza, in questo modo, alla “cabina di regia” istituita presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri.

L’esigenza avvertita da chi lavora sul campo per la tutela dei diritti è poi quella di saldare i poteri alle responsabilità. Troppo spesso poteri e responsabilità non sono adeguatamente definiti e questo rende difficile anche per i cittadini e le associazioni seguire i percorsi decisionali. Un caso per tutti, di particolare rilievo è quello della sicurezza scolastica.

Con Cittadinanzattiva, Save the Children ha proposto di recente una legge sulla sicurezza delle scuole che faccia finalmente ordine tra livelli di responsabilità diversi. Per superare il paradosso che vede oggi un dirigente scolastico essere responsabile se la sua scuola crolla, ma non avere il potere di disporre di un budget per sistemarla preventivamente e addirittura rischiare una denuncia di interruzione di pubblico servizio se la chiude in base ad un principio di precauzione. Da questo punto di vista, va ad esempio considerata la richiesta avanzata dalla Regione Emilia Romagna di assumere un ruolo in ordine all’edilizia scolastica sul suo territorio. I poteri devono corrispondere alle responsabilità, per evitare il crearsi di zone opache dove è difficile amministrare e, dall’altro lato, anche esercitare funzioni di controllo e monitoraggio.

Preliminarmente, occorrerebbe interrogarsi sulle modalità di misurazione che sono in campo. Perché è difficile parlare di livelli essenziali e di fabbisogni se ad oggi non disponiamo di rilevazioni di livello regionale e sub-regionale, indispensabili per leggere le diseguaglianze sociali ed educative. Tanto per citare un caso, per il 2012 il governo chiese all’OCSE di fare una “sovracampionatura” per ottenere, oltre alla media nazionale, un dato regionale relativo alle competenze minime in matematica, lettura e scienze dei quindicenni in Italia. L’analisi consentì di rilevare come in alcune regioni i ragazzi gareggiassero per i primi posti nella classifica internazionale mentre altri erano sul fondo della classifica.

E’ evidente che, di fronte a dati così difformi, il valore medio nazionale dice poco o nulla. Eppure nelle successive rilevazioni OCSE questo approfondimento regionale così utile non è stato più richiesto e dunque rilevato. Nel 2016 il Parlamento ha impegnato l’Istat a definire indicatori territoriali per misurare la “povertà educativa” come base per la costruzione di politiche mirate di intervento. E’ necessario sostenere l’impegno su questo fronte perché leggere il territorio e misurare i divari è il primo passo di ogni seria e lungimirante politica. Da questo percorso dovrebbero discendere anche le scelte, evidentemente cruciali, relative alla distribuzione delle risorse. Ignorare questi passaggi rappresenta un grave rischio.

Fuori dal ring “nordisti – sudisti” ci si può dunque chiedere se e a quali condizioni un eventuale nuovo bilanciamento di poteri possa combinarsi con un avanzamento dei diritti sociali, e dunque della nostra democrazia. Così impostata, la riflessione potrebbe coinvolgere anche gli attori non istituzionali, come le organizzazioni civiche, trasformandosi in un’opportunità per riflettere sul superamento delle diseguaglianze e sulle strategie di sviluppo sostenibile per il Paese, tutto insieme.

 

Note

[1] Fonte Istat 2019, dati 2016-2017

[2] Fonte Eurostat 2017

[3] Fonte Istat 2016

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