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Lo sviluppo della tecnologia e le sue applicazioni dovrebbero essere al centro di un dibattito più allargato, di una condivisione di idee e valori che tengano conto dell’uomo, non solo dei profitti. Le istituzioni, le forze politiche e la società civile dovrebbero diventare interlocutori attivi di un processo, quello tecnolgico, che richiede una governance più allargata

Wheelys è il nome di una startup svedese che di recente ha sperimentato in Cina i negozi completamente automatici, dove si può entrare in qualsiasi ora della giornata, si può pagare con lo smartphone (basta scaricare l’app dove è registrato il numero di carta di credito) e dove il commesso è un ologramma. Amazon, che ha comprato la catena di supermercati statunitense Whole Foods, sta collaudando un modello simile di vendita nel suo negozio di Seattle.

La tecnologia, in fortissima accelerazione negli ultimi anni, sta cambiando definitivamente anche il volto del commercio al dettaglio – che scontava già (e sconta ancora) una crisi nera a causa della spietata concorrenza del commercio online. E lo sta facendo avvantaggiando le aziende a scapito dei lavoratori. L’azienda svedese Wheelys, infatti, immagina che in futuro l’ologramma, attraverso l’intelligenza artificiale, potrà sostituirsi interamente al commesso dando consigli alla clientela e aiutandola addirittura a non sforare un determinato budget: tutto ciò grazie a sistemi di raccolta di dati biometrici e sui comportamenti d’acquisto dei clienti, custoditi gelosamente dall’azienda.

Qui è in gioco la cosiddetta questione delle macchine, posta per la prima volta dall’economista Ricardo che già nel 1821 si interrogò sull’influenza che queste avrebbero avuto sugli interessi delle classi sociali. Oggi la medesima questione ha profili del tutto nuovi e a svolgere un ruolo fondamentale è l’intelligenza artificiale che, combinata ai big data, sta raggiungendo risultati fino a pochi anni fa inimmaginabili. Grazie ad una tecnica chiamata deep learning oggi le macchine, dotate di reti neurali altamente sofisticate, riescono a risolvere problemi sempre più complessi: in questo modo non sono a rischio solo le occupazioni basate su compiti ripetitivi e prevedibili, ma anche lavori che si fondano su qualità umane come l’esperienza e il giudizio (pensiamo ai campi come la sanità, le professioni legali, ecc.). I robot e gli algoritmi di apprendimento automatico stanno erodendo gran parte della base della piramide delle competenze lavorative, avanzando inesorabilmente verso il vertice della piramide dove si posizionano le occupazioni più qualificate e ritenute, fino ad ora, sicure.

Come osserva Martin Ford nel suo libro Il futuro senza lavoro (il Saggiatore 2017) un po’ in tutta l’economia e la società le macchine stanno andando oltre il loro ruolo di strumenti, diventando in alcuni casi “lavoratori” dotati di autonomia. Ma questo è il frutto di una scelta che non è solo in capo agli ingegneri e ai progettisti di questi sistemi. L’avanzata verso l’automazione è il prodotto del modello capitalista: grandi colossi come Google, Microsoft ed Apple hanno lanciato dei venture capital per finanziare startup innovative con lo scopo principale di affinare le tecniche di marketing e, quindi, aumentare i profitti. Qualunque impresa dotata di razionalità ha la tentazione di adottare tecnologie che permettono di risparmiare sul lavoro, è la legge del mercato: se mantenere un negozio costa troppo, tra affitto e salari, è meglio tagliare sui costi del personale e investire sulle macchine che non si ammalano, non chiedono ferie e non rivendicano nulla.

Ma se parliamo dei servizi di interesse generale? Qualche tempo fa mi è capitato di dover prendere il treno per raggiungere Roma da una stazione periferica dove era possibile acquistare i titoli di viaggio solo attraverso una, e una sola, macchina automatica. Quella mattina il distributore aveva qualche problema ad emettere i biglietti, creando non pochi disagi a noi pendolari. Decidemmo di comune accordo di far presente il problema al controllore, chiedendo di poter comprare il biglietto una volta saliti sul treno. Purtroppo la nostra buona fede non è stata premiata: il controllore ci ha fatto pagare il biglietto con una sovrattassa perché l’azienda di trasporto non permetteva al personale di bordo di emettere titoli di viaggio senza maggiorazione. Un episodio di ordinaria cattiva amministrazione come questo, oltre alla collera, dovrebbe indurci alcune domande sul concetto di responsabilità e sull’autonomia della tecnologia negli ambienti lavorativi, sui processi di riorganizzazione che l’automazione richiede all’interno delle realtà produttive e, non ultimo, sul ruolo che il fattore umano ha (o dovrebbe avere) nel lavoro. Il grosso errore compiuto dall’azienda di trasporto in questione è stato quello di cedere alla tentazione di considerare autonomo, alla stregua di un lavoratore umano (o più lavoratori umani), un semplicissimo erogatore automatico di biglietti che, evidentemente, è anni luce lontano dai sistemi intelligenti su cui molto sta puntando la ricerca scientifica odierna. Se, accanto alla macchinetta, ci fosse stato un lavoratore in carne ed ossa, questo avrebbe comunicato il disguido all’azienda la quale si sarebbe attivata e avrebbe rivisto le sue procedure per andare incontro ai bisogni della clientela.

Prima di adottare qualsiasi innovazione tecnologica ogni azienda, soprattutto se operante nei servizi di interesse generale, dovrebbe ripensare alle funzioni, alle strutture organizzative e alle procedure applicate al suo interno, secondo una visione organica in cui le persone dovrebbero rimanere sempre parti fondamentali del sistema. Ma anche in quei settori dove sono già applicati sistemi intelligenti, robot che auto apprendono, fino a che punto ci si può spingere verso l’autonomia? Cosa succede quando si delega ad un sistema artificiale la responsabilità di gestire un intero processo produttivo?

Le istituzioni europee si stanno già interrogando su questi temi e hanno promosso un nuovo quadro di normative necessarie a definire con maggior chiarezza le responsabilità delle macchine e di chi le ha progettate, in sede civile e penale. La creazione di uno status giuridico per i robot, insieme alla mozione sulla loro “personalità elettronica” (presentata al Parlamento Europeo da Mady Delvaux, proveniente dal partito operaio socialista del Lussemburgo) porrebbero le macchine intelligenti davanti a diritti e doveri, alla stregua di esseri umani, con l’obiettivo di arrivare a tassare il lavoro svolto dagli automi e assegnare le risorse ottenute ai lavoratori umani che perderanno il loro impiego. Benché preoccupanti e sconvolgenti, questi concetti entreranno molto presto nel lessico giuridico contemporaneo e nelle nostre vite, ponendoci davanti a interrogativi importanti. Che ne sarà del fattore umano nelle organizzazioni? In che modo le persone (e quello che ne rimane del loro lavoro) si dovranno integrare con le macchine? E come, coloro che perderanno il lavoro, riusciranno a ritrovare il loro posto nella società, la loro “vocazione”?

«Mettiamo al centro l’uomo e non la macchina, perché la tecnologia è un supporto, non un sostituto» ha dichiarato di recente Enrico Cereda, presidente e amministratore delegato di IBM Italia. Un messaggio rincuorante davanti agli scenari descritti. IBM è quella società informatica statunitense che all’inizio degli anni 2000 investì una buona parte delle proprie risorse nella ricerca sulle reti neurali con l’obiettivo di creare un computer intelligente capace di giocare a Jeopardy! e battere i campioni umani del quiz. Proprio a partire da questa grande sfida è stato creato Watson, un sistema in grado di decodificare e rispondere a domande poste nel linguaggio naturale (attraverso migliaia di algoritmi mirati ad attività diverse come l’analisi grammaticale, la ricerca testuale, ecc.). Questo sistema, migliorato ed adattato nel tempo, dopo circa dieci anni è stato lanciato nel mondo reale, trovando così applicazione in campi disparati, in primis quello della sanità: oggi Watson è usato come strumento diagnostico in grado di fornire risposte precise scandagliando una quantità sbalorditiva di fonti come libri di testo, riviste scientifiche e studi clinici, rivelandosi così un supporto importante nella cura del cancro. Un sistema di questo genere, una volta perfezionato, un domani potrebbe svolgere il ruolo di consulente interattivo, fornendo un secondo parere competente al personale sanitario, evitando anche i costi (umani in primis) legati ai casi di malasanità. Non consiste forse in questo la sfida lanciata qualche anno fa da Bryniolfsson, economista del MIT di Boston, di concepire le macchine come “complementi, non surrogati del lavoro”? 

Affinché ciò avvenga, lo sviluppo della tecnologia e le sue applicazioni (dall’industria alla medicina) dovrebbero presupporre un dibattito più allargato, una condivisione ampia di idee, di valori, che tengano conto dell’uomo innanzitutto, non solo dei profitti. Le istituzioni, le forze politiche e la società civile, a vari livelli, dovrebbero occuparsi del tema non solo “a valle”, dipanando la matassa delle responsabilità civili e penali dei robot per introdurre nuove tassazioni o contributi previdenziali, ma diventando interlocutori attivi di un processo, l’accelerazione tecnologica, che, per quanto inarrestabile e veloce, deve avere una governance più allargata. Solo in questo modo avremo più chance di attrezzarci a vivere un futuro così fosco e incerto, altrimenti il triste epilogo sarà quello di dover assistere, un domani, all’avanzata del populismo 4.0 e dei suoi slogan contro l’invasione dei robot.

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  1. […] Angela Schito (Dipartimento Lavoro delle Acli nazionali) osserva come “lo sviluppo della tecnologia e le sue applicazioni (dall’industria alla medicina) dovrebbero presupporre un dibattito più allargato, una condivisione ampia di idee, di valori, che tengano conto dell’uomo innanzitutto, non solo dei profitti. Le istituzioni, le forze politiche e la società civile, a vari livelli, dovrebbero occuparsi del tema non solo “a valle”, dipanando la matassa delle responsabilità civili e penali dei robot per introdurre nuove tassazioni o contributi previdenziali, ma diventando interlocutori attivi di un processo, l’accelerazione tecnologica, che, per quanto inarrestabile e veloce, deve avere una governance più allargata”. […]

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