|

Proponiamo un’ampia intervista a Michel Faioli, docente di Diritto del lavoro presso l’Università di Roma Tor Vergata e l’Università Cattolica (sede di Roma), Coordinatore scientifico della “SERI-Scuola Europea di Relazioni Industriali” e consulente del CNEL. L’intervista riprende ampiamente un articolo apparso sulla rivista Coscienza del Meic

Sono passati ormai venti anni dall’introduzione del pacchetto Treu. Che valutazione da delle riforme del mercato del lavoro realizzate in Italia? Quali effetti hanno prodotto? I cambiamenti normativi introdotti sono in linea con le altre legislazioni europee in materia di lavoro?
Per osservare, a vent’anni dall’introduzione, gli effetti del Pacchetto Treu, ci si deve porre almeno due domande, di cui una è premessa dell’altra. La domanda principale è la seguente: un legislatore prudente come può dare forma oggi, nella primavera del 2017, a un sistema di relazioni industriali e di lavoro capace di mettere l’Italia in una sana logica di convergenza normativa con altre economie europee comparabili (soprattutto Francia e Germania)? Questa domanda deve essere preceduta da una domanda-premessa: cosa troveranno negli anni successivi al 2025 di ciò che noi oggi riteniamo siano lavoro, produzione, impresa i giovani millennials, cioè quella Net-Generation a cui si fa lezione oggi nelle aule d’università o che frequenta gli ultimi anni di scuola superiore? In queste due domande si può leggere anche la logica del pensiero sociale della Chiesa, la quale ci invita a tenere presente che i fini di riconoscimento della dignità della persona nel e sul lavoro restano permanenti e immutabili, sebbene si debbano periodicamente aggiornare i mezzi concreti per realizzare tali fini.

A differenza di altre economie sviluppate, la struttura industriale italiana non ha beneficiato di relazioni industriali resilienti rispetto ai processi di globalizzazione. Il Pacchetto Treu del 1997 ha avuto il merito di avviare il processo di riforme di cui l’Italia necessitava già negli anni Ottanta (si veda in proposito la Relazione Cnel del 1984 curata da Giugni e Mengoni). Le riforme successive al 1997 (quella del 2003 di Biagi, quella del 2007 di Damiano, quella Del 2009-2011 di Sacconi e quella del 2012 di Monti e Fornero) non hanno centrato l’obiettivo. Nei fatti, cioè nella pratica delle relazioni di lavoro e sindacali, quella legislazione del primo decennio di questo millennio non è stata sufficiente per aggredire la crisi nel momento in cui essa si è presentata. Ciò è tanto più vero se osserviamo ciò che accaduto nello stesso periodo nei sistemi giuslavoristici della Francia e della Germania, i quali sono stati molto più resilienti del nostro sistema alla crisi. La riforma del 2015 (Jobs Act) ha, invece, consolidato la visione più europea del Pacchetto Treu, disponendo un quadro complesso: il Jobs Act ha promosso politiche attive che hanno una regia nazionale, anche a art. 117 Cost. invariato (Anpal, agenzia unica nazionale per le politiche attive, e rete regionale dei centri per l’impiego), ha effettuato una profonda rimodulazione del collegamento tra politiche attive e sostegno al reddito in caso di disoccupazione (condizionalità, patto di servizio, eccetera), ha messo in pratica esperienze collaudate a livello regionale (assegno di ricollocazione), ha spostato il focus dalle flessibilità in entrata/in uscita (tipi di lavoro e licenziamento) alla flessibilità interna (mansioni e inquadramento, orario, etc.), ha corretto le distonie del lavoro a progetto, ha delegato alla contrattazione collettiva l’attuazione delle flessibilità interne, ha iniziato a garantire più efficacemente i percorsi di alternanza scuola/lavoro (apprendistato e garanzia giovani).

 

Cosa si può fare oggi per allinearci con Francia e Germania? Cosa si può mettere in cantiere, seguendo l’impostazione del Pacchetto Treu e del Jobs Act, per i giovani millennials?

La buona flessibilità deve essere supportata dalla capacità di definire negozialmente a livello aziendale l’organizzazione del lavoro. Ciò viene in evidenza soprattutto se si osserva il programma di rivoluzione digitale dell’industria europea (Industry 4.0) e le nuove modalità di economia circolare (Gig-Economy – cioè, Uber, Deliveroo, etc.). Ma il problema che ci si pone sin dal 1997 resta il medesimo: il mutamento delle “regole del gioco” è sufficiente? Si deve procedere con sperimentazioni locali/settoriali prima di introdurre a livello nazionale nuove norme? Chi può svolgere un fair assessment delle sperimentazioni e riferire al Parlamento/Governo? Chi valuta l’efficacia delle nuove misure? La politica sta facendo la sua parte per riformare le relazioni industriali e del lavoro. Mi pare difficile immaginare che per legge si possa fare di più per favorire e promuovere il collegamento tra contrattazione collettiva e organizzazione del lavoro.

Probabilmente andare oltre questa linea non è neanche auspicabile, data la tradizione di autonomia che le relazioni industriali italiane rivendicano. E questo perché il valore delle riforme nei sistemi di relazioni industriali nasce dall’esperienza concreta, dall’applicazione di norme di legge e di contratto collettivo alle specificità dei contesti in cui l’imprenditore e le rappresentanze sindacali operano. In questa prospettiva, gli studi più accreditati di giuslavoristi che si occupano di diritto comparato ci insegnano che Francia e Germania, anticipando la crisi del 2008, avevano già efficacemente aggiornato i propri sistemi di relazioni industriali, rendendo modulabili, adattabili, flessibili i contratti collettivi nazionali e aziendali.
Le nostre riforme del 1997, 2003, del 2007 e del 2009-2012 hanno iniziato un percorso senza consolidare i risultati. In altre parole, nel medesimo arco temporale, in Francia e in Germania, facendo scorta di esperienze di crisi precedenti o trasformazioni istituzionali, si rese elastico ciò che era per definizione anelastico. In Francia il sostegno legislativo è stato meno blando che in Germania. In entrambi i casi, però, decisiva è stata la volontà delle parti sociali di appoggiare alla norma di legge, che promuoveva la riforma, le modifiche interne ai sistemi di contrattazione, che sono state auto-regolamentate dalle medesime parti, più o meno estensivamente. È stato, dunque, il protagonismo delle parti sociali in quei Paesi ad aver avuto esiti positivi.


Il patrimonio, anche storico, delle relazioni industriali italiane può essere un elemento positivo in un contesto di cambiamenti così profondi nel mondo del lavoro? Quale ruolo può avere il welfare aziendale?

I recenti fatti francesi sulla riforma del lavoro ci fanno capire che le vie alternative all’auto-regolamentazione delle parti sociali, sostenuta adeguatamente dal legislatore, crea solo scompiglio. In Italia le relazioni industriali e di lavoro sono un “bene-esperienza” molto prezioso, che ha una propria grammatica, spesso incagliata in artifici linguistici pseudo-paranoici, che coprono persino le intenzioni più vere dei soggetti sindacali che amministrano le regole. Le parti sociali si stanno muovendo per aprire un confronto. Il legislatore italiano ha spazio per agire, anche rapidamente, nelle relazioni di lavoro, mettendo da parte le tecniche normative omnicomprensive. Il legislatore italiano, per allinearsi con la Francia e la Germania, potrebbe da subito specificatamente aggiornare lo schema di rappresentanza dei lavoratori in azienda, muovendo dalla giurisprudenza costituzionale del 2013 relativa all’art. 19 dello Statuto dei Lavoratori. Il welfare aziendale, attuato per contrattazione aziendale/territoriale (si veda la legge di bilancio 2017) è, in questa ottica, un caso positivo, un’esperienza di best practice da valorizzare (in questi due anni sono stati chiusi circa ventimila contratti aziendali), che conferma come il decentramento contrattuale funzioni, ma debba essere controllato con un rinvio a “nuovo” – perché più europeo – art. 19 dello Statuto.

 

Quale diritto del lavoro si può introdurre per migliorare le prerogative della rappresentanza sindacale e per facilitare le forme di partecipazione dei lavoratori? Quali misure si possono adottare per favorire i giovani millennials?

Credo si potrebbe costruire un percorso, individuando sull’esempio del Pacchetto Treu cose concrete rispetto alle urgenze future delle relazioni industriali italiane e disciplinando per legge un quadro preliminare. In primo luogo, a livello nazionale, si dovrebbe disporre la regola dell’esclusività della rappresentanza in azienda (cioè si vota a maggioranza ed è giuridicamente irrilevante il dissenso delle minoranze e dell’individuo), fissare nella contrattazione aziendale le materie o prerogative della rappresentanza aziendale che sono connesse alla gestione dei rapporti di lavoro (flessibilità normative su orario di lavoro, mansioni, controlli, inquadramento, eccetera), fissare il principio di prevalenza del contratto decentrato su quello nazionale nelle materie indicate sopra (di nuovo, flessibilità normative su orario di lavoro, mansioni, controlli, inquadramento, etc.), introdurre sistemi per l’attuazione dell’arbitrato (o di commissioni conciliative) nelle relazioni collettive, a livello aziendale e livello nazionale. Tale dinamica condurrebbe finalmente l’Italia in una posizione di pareggio con i sistemi francesi e tedeschi anche nelle forme partecipative dei lavoratori. Il che avrebbe ricadute immediate sulla resilienza delle nostre relazioni industriali rispetto agli effetti della globalizzazione sul lavoro, anche in tempo di crisi.

In un secondo passaggio, avendo assunto il formale impegno di garantire ai giovani millennials un’Europa sociale (Dichiarazione di Roma del 25 marzo 2017), sarebbe auspicabile costruire da subito un Jobs Compact europeo. Esso è tanto urgente quanto determinante per il futuro stesso dell’Europa. Job Compact europeo significa definire almeno due istituti giuridici euro-unitari: il primo attiene a uno schema armonizzato a livello europeo di disoccupazione (il modello teorico è stato già studiato e si definisce “EUBS” – European Unemployment Benefit Scheme); il secondo istituto riguarda la promozione della mobilità geografica dei giovani per ragioni di lavoro e di apprendimento. In quest’ultimo caso, il Pacchetto Treu lascia traccia di un’idea vincente: se nel 1997 si pose mano ai contratti che garantivano lavoro e formazione per i giovani, oggi nel 2017 si deve costruire una forma contrattuale europea che, componendo lavoro e formazione, nel contempo favorisca/obblighi una mobilità geografica dei giovani per brevi periodi (3/6 mesi), durante le scuole superiori, con forme di incentivo economico-retributivo sul modello della garanzia giovani.

In altre parole, si sta proponendo una specie di programma Erasmus con finalità di apprendimento di un lavoro, finanziato con la garanzia giovani e obbligatorio per studenti delle scuole superiori. L’abbinamento tra EUBS e contratto europeo di formazione/lavoro sarebbe l’inizio di una nuova fase per le relazioni industriali e di lavoro in Europa. Si creerebbe un linguaggio comune, basato sul binomio lavoro/formazione per giovani a livello continentale, e di conseguenza sui diritti e sulle prospettive di integrazione e di crescita solidale. In definitiva, è un linguaggio comune che, basandosi sul valore condiviso del lavoro «libero, creativo, partecipativo e solidale, [in cui] l’essere umano esprime e accresce la dignità della propria vita» (Evangelii Gaudium), si adatta alla situazioni concrete e si aggiorna con mezzi volti a realizzare i fini di libertà, solidarietà e partecipazione.

Tags:
Ti è piaciuto questo articolo? Condividilo!
1 Comment

Comments are closed.

  1. […] con un’ampia intervista a Michele Faioli (Esperto di diritto del lavoro e neo-nominato Consigliere del CNEL) che tra l’altro sottolinea […]

FACEBOOK

© 2008 - 2024 | Bene Comune - Logo | Powered by MEDIAERA

Log in with your credentials

Forgot your details?