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Una domanda di lavoro povera, che esclude i giovani e che si accompagna ad una offerta formativa assolutamente inadeguata, costituiscono il principale fardello del nostro modello di sviluppo. E’ necessario averne piena consapevolezza se si vogliono realizzare riforme incisive che restituiscano competitività al Paese

Una recente ricerca internazionale condotta da IPSOS MORI su 14 paesi, colloca l’Italia al primo posto nella graduatoria dell’indice di ignoranza, che misura, sulla base delle risposte ad un questionario, la percezione che hanno i cittadini del proprio paese rispetto alla realtà. A tutti gli 11 mila intervistati (di cui circa mille in Italia) sono state poste le stesse domande sulla dimensione della disoccupazione, dell’immigrazione e della criminalità e le risposte fornite dai nostri concittadini (in buona compagnia degli statunitensi) si sono dimostrate le più lontane dalla realtà, a differenza di quanto avviene in Svezia, Germania, Spagna e Regno Unito dove la conoscenza corretta dei fenomeni è invece molto più elevata.

Al di là del primato nella graduatoria, che pure non può essere liquidato come semplice fenomeno di costume, il fatto che gli italiani abbiano una percezione media così distorta della realtà sociale deve preoccupare, soprattutto se l’ignoranza è massima su temi come il mercato del lavoro, argomento oggi al centro del dibattito politico ed istituzionale. Senza una profonda consapevolezza su quale sia la realtà della “questione lavoro” c’è, infatti, il rischio che qualsiasi processo di riforma possa apparire “ostile” o al più potenzialmente inefficace.

Proviamo a riepilogare gli aspetti chiave di questa realtà, considerando due temi strettamente interdipendenti la formazione ed il lavoro dei giovani, partendo appunto dai dati reali. Nel secondo trimestre 2008 gli occupati tra il 15 ed i 34 anni erano 7,2 milioni. Nello stesso trimestre del 2014, dopo sei anni di crisi, i giovani lavoratori under 35 sono 5,1 milioni con una perdita secca di oltre 2,1 milioni di posti di lavoro. Se si guarda alla composizione per classi di età degli occupati la situazione appare ancora più drammatica: tra il 20 ed i 24 anni la perdita è stata di 432 mila posti di lavoro; tra i 25 ed i 29 anni di 632 mila e tra il 30 ed i 34 anni di 885 mila. In altre parole è come se il sistema produttivo avesse deciso di rinunciare alla componente giovanile della forza lavoro (quella naturalmente più scolarizzata) a vantaggio di quella adulta ed anziana, tanto che sopra i 45 anni si registra una crescita di circa 1,6 milioni di occupati.

Tale squilibrio, per altro, non è attribuibile alla composizione per genere. Calano infatti drasticamente anche le giovani donne occupate a vantaggio di quelle adulte o anziane. Inoltre il drammatico calo dell’occupazione giovanile tra i 15 ed i 34 anni è generalizzato territorialmente con un saldo negativo di 996 mila giovani nel Nord, di 380 mila nel Centro Italia e di 731 mila nel Mezzogiorno. Si tratta di fenomeni tanto gravi quanto “anomali”. Storicamente, nelle fasi di crisi i processi di ristrutturazione tendevano a sostituire la forza adulta meno scolarizzata con quella giovanile più istruita e con un costo minore. Ora la situazione sembra drammaticamente ribaltata, e sebbene anche in Europa il fenomeno si sia manifestato, è l’ Italia, tra i grandi paesi UE, ad aver subito l’emorragia di giovani lavoratori maggiore.

Se questi sono i dati occorre ripensare rapidamente al nostro modello di sviluppo e non solo nelle“regole” del mercato del lavoro. Già il nostro paese scontava storicamente una bassa partecipazione al mercato del lavoro. Ma ora espellendo forza lavoro giovanile ci precludiamo qualsiasi possibilità di recuperare la nostra naturale capacità competitiva. Certo, oggi la domanda di lavoro è debole, ed il prolungamento dell’età pensionabile non favorisce alcun ricambio generazionale. Ma l’espulsione della forza lavoro giovanile indebolisce enormemente i processi di innovazione sia nel comparto manifatturiero (dove le poche imprese che esportano invece assumono prevalentemente giovani) sia in quello dei servizi avanzati ( dove invece la capacità innovativa e le assunzioni di giovani sono al minimo storico).

Qualcuno dirà che sono le competenze professionali dei giovani a mancare. In parte ciò e vero: ma la formazione universitaria è di livello più che soddisfacente e lo dimostrano le schiere di giovani laureati che trovano lavoro in Europa, in quei paesi che investono sull’innovazione. E lo sarebbe anche l’istruzione tecnica se fosse accompagnata da un formazione professionale iniziale e ricorrente – di competenza delle Regioni e dei Fondi interprofessionali – di livello adeguato. Anche in questo caso qualche dato può aiutare a comprendere la realtà.

Secondo i dati ISTAT sulle forze di lavoro, nel 2013 hanno partecipano ad un corso di formazione professionale organizzato o riconosciuto dalla Regione 51 mila persone in cerca di lavoro e 76 mila inattivi (verosimilmente giovani drop out o senza precedenti esperienze di lavoro), un volume assolutamente irrisorio se si considerano gli oltre 3 milioni di disoccupati cui si aggiunge almeno un milione e mezzo di inattivi scoraggiati. Tra i 15 ed i 34 anni i giovani disoccupati o inattivi che hanno partecipato a corsi di formazione professionale organizzati o riconosciuti dalle Regioni sono stati circa 81 mila in tutta Italia!.

Per non parlare dell’apprendistato che non solo diminuisce drasticamente da tre anni (nel 2011 le attivazioni in apprendistato erano 298 mila e nel 2013 dopo la riforma erano 242 mila) ma, come è noto, in molte regioni manca la componente formativa. Anche la formazione continua è al palo. Secondo l’Eurostat nel 2013 hanno partecipato ad attività formative il 6% degli occupati tra i 25 ed i 64 anni (erano il 5,2% nel 2004) contro il 19,7% della Francia,il 17% del Regno Unito e l’ 11,4% della media europea nei 28 Paesi. Inoltre, secondo l’ISFOL dei 472 mila lavoratori coinvolti nei progetti di formazione realizzati nel 2012 dai Fondi interprofessionali solo il 33% è riservato a giovani sotto ai 34 anni e meno dell’8% ha interessato lavoratori con contratti a tempo determinato.

Insomma, probabilmente l’offerta di formazione professionale non è sempre di qualità ma sicuramente è insufficiente. Una domanda di lavoro povera, che esclude i giovani e che si accompagna ad una offerta formativa assolutamente inadeguata costituiscono il principale “fardello” del nostro “modello di sviluppo” ed è necessario averne “piena”consapevolezza se vogliono realizzare riforme (non solo del mercato del lavoro) incisive che restituiscano, effettivamente, competitività al paese.

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