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In una prospettiva anticiclica occorrerebbe riflettere sulle enormi diseconomie generate dai ritardi nello sviluppo delle competenze digitali sia rispetto alla crescita delle diseguaglianze sia nel depotenziamento della capacità competitiva del sistema produttivo. Per questo sarebbe utile pensare politiche integrate che combinino il rafforzamento dell’offerta formativa, il sostegno alla domanda di competenze tecniche e tecnologiche delle imprese con i diversi programmi di sviluppo (tra cui industria 4.0) già oggi in essere. Ma il tema non sembra essere all’ordine del giorno…

Che i profili professionali con elevate competenze tecnologiche e digitali siano particolarmente richiesti nel mercato del lavoro è cosa ormai accertata. La domanda di lavoro nella società della “quarta rivoluzione industriale” attribuisce alle conoscenze legate al “coding” un valore particolare ed in tutte le grandi economie del 21esimo secolo crescono gli investimenti nella formazione nelle discipline scientifiche. Il professor Becchetti ha tracciato un profilo chiarissimo del lavoro 4.0, mostrando come l’innovazione tecnologica stia rimodellando lo scenario globale, da un lato sostenendo la crescita della domanda di beni e servizi a livello mondiale, dall’altro contribuendo ad alimentare i fenomeni di diseguaglianza.  Come antidoto ai processi di esclusione sociale – sostiene Becchetti – non c’è che la formazione e non solo di quella strettamente tecnologica.  Occorrerebbe, infatti, un grande investimento educativo che fin dalle prime classi stimoli quello che i pedagogisti chiamano “pensiero computazionale” inteso come strumento per lo sviluppo di capacità di apprendimento e comprensione e di competenze logiche per risolvere problemi in modo creativo ed efficiente. Probabilmente nei paesi che puntano sullo sviluppo dell’economia digitale è già così. Nelle scuole elementari come nelle università della Silicon Valley, nei distretti digitali indiani o cinesi, questo processo è già cominciato ed in Europa, seppure più lentamente, la formazione tecnologica è alla base della crescita occupazionale dei paesi del nord. Ma da noi?

Certamente l’Italia non rientra tra i paesi che investono sulla formazione tecnologica. L’alfabetizzazione digitale dei ragazzi è affidata di fatto ai social network (con un ruolo ancora marginale della scuola), la   partecipazione agli studi universitari è relativamente bassa, la formazione tecnica superiore non universitaria è dieci volte meno diffusa che in Europa, le facoltà del gruppo scientifico scontano ancora tassi di partecipazione relativamente bassi. Da cosa dipende questo disinteresse collettivo verso la formazione tecnica e tecnologica? Le risposte ovviamente sono molteplici, ma sicuramente le cause non vanno cercate né nella debolezza qualitativa dell’offerta formativa (soprattutto universitaria) dal momento che i nostri giovani laureati e tecnici sono enormemente apprezzati in tutti i paesi che attraggono “capitale intellettuale; né nella nostra tradizionale attenzione alla dimensione umanistica, poiché è proprio quella che rende particolarmente competitivi i nostri “cervelli in fuga”. Sosteniamo gli investimenti tecnologici delle imprese, ma non nella formazione che dovrebbe sostenerli. Ne parliamo nei convegni e tuttavia nella sostanza il rafforzamento e la qualificazione dell’offerta formativa non è all’ordine del giorno da molti anni.

Per questo, forse, la ragione dello storico ritardo nell’avviare una stagione di importanti investimenti educativi e formativi va ricercata proprio nella struttura della domanda di lavoro che, soprattutto nel confronto con quella di altri paesi, riserva alle competenze digitali un ruolo importante eppure ancora marginale. Anche in questo caso i dati aiutano a comprendere la realtà.

Il confronto con l’Europa mostra inequivocabilmente che la domanda di digital skills nel nostro paese è ancora debole. I più recenti dati Eurostat collocano l’Italia al 22-esimo posto tra i Paesi UE per incidenza di specialisti ICT (si veda la nota 1) sul totale degli occupati: appena il 2,6% contro una media europea del 3,7%. Guidano la graduatoria Finlandia e Svezia, con percentuali superiori al 6%. Complessivamente sono circa 8,2 milioni i professionisti ICT nei 28 Paesi Ue, di questi 1,6 milioni lavorano nel Regno Unito, 1,5 milioni in Germania e 1 milione in Francia.  Nei tre Paesi si concentra, quindi, circa la metà dei lavoratori ICT presenti sull’intero territorio comunitario. In Italia sono meno di 600 mila e solo il 16,2% delle imprese con almeno 10 addetti, impiega esperti in ICT, percentuale questa che nelle imprese più piccole (10-49 addetti) raggiunge il 12% a fronte del 72% delle imprese con più di 250 addetti.

Anpal Servizi, al fine di fornire un contributo al dibattito sul futuro del lavoro digitale, ha realizzato recentemente uno studio dedicato alla domanda di lavoro di competenze digitali delle imprese, sfruttando i dati tratti dal Sistema Informativo delle Comunicazioni Obbligatorie; il quadro che emerge sembra confermare i ritardi nei confronti dei nostri partner europei. Lo studio ha permesso di rispondere a tre semplici domande:

  • quante sono le imprese che hanno assunto personale con competenze specialistiche nell’ICT negli ultimi anni?
  • Quale è la dimensione della domanda?
  • Di quali qualifiche parliamo e quali tipologie contrattuali vengono utilizzate?

Nel corso del 2017 sono state circa 32 mila le imprese (si veda la nota 2) che, hanno assunto lavoratori con competenze digitali. Escludendo la Pubblica Amministrazione, rappresentano appena il 2,9% del totale delle aziende che complessivamente, nel periodo, hanno registrato assunzioni. Nel quinquennio 2012-2016 il loro peso non è mai superiore al 3,3% (2015) ed oscillano tra le 37 mila del 2015 e le 30 mila del 2016. In Lombardia la percentuale sale al 5,2% seguita dal Lazio (4,3%) e Piemonte (4,0%). All’ opposto la percentuale di imprese che ha effettuato assunzione per profili ICT non supera l’1,5% in Calabria, Basilicata e Puglia. Sei su dieci tra le imprese che hanno assunto professionisti ICT, hanno attivato non più di 1 contratto mentre un ulteriore 20% dei soggetti datoriali ha, invece, provveduto ad effettuare 2 assunzioni. E solo una quota minima ha fatto registrare complessivamente più di 5 contratti per esperti ICT.

La domanda delle imprese si è tradotta nel 2017 in circa 198 mila rapporti di lavoro per specialisti ICT, ma le qualifiche professionali con il maggior numero di assunzioni sono riservate a Tecnici degli apparati audio-video e della ripresa video-cinematografica (68 mila contratti), Tecnici del montaggio audio-video-cinematografico (26 mila) e Tecnici del suono (18.185). Per molte di queste qualifiche, la domanda di lavoro è caratterizzata da un’elevata frammentazione contrattuale, composta per lo più da rapporti di lavoro di breve e brevissima durata a carattere temporaneo. Si tratta prevalentemente di contratti stipulati nei settori dello spettacolo in generale e della radio-televisione o del cinema in particolare. Le assunzioni riservate alle figure core dell’ICT, ossia gli Analisti e progettisti di software (15 mila), i Tecnici programmatori (12mila), i Tecnici esperti in applicazioni (11 mila) e gli Analisti di sistema (5.704) coprono circa un quarto del totale, ma in questo caso prevalgono i rapporti di lavoro standard e di durata più lunga.  L’analisi settoriale conferma la forte prevalenza delle assunzioni per profili ICT nelle Attività di produzione cinematografica, di video e di programmi televisivi, di registrazioni musicali e sonore (71 mila assunzioni pari al 36,0% del totale) dove il numero di contratti di natura permanente è appena lo 0,5% delle assunzioni. Di contro nella Produzione di software, consulenza informatica e attività connesse, i rapporti di lavoro attivati sono circa 33 mila e in questo caso la quota di contratti permanenti sale al 72,8%, con un ricorso significativo all’apprendistato.

L’intero comparto manifatturiero e delle Telecomunicazioni assorbe meno del 10% delle assunzioni in ICT e quello delle Costruzioni poco più del 3% ed in entrambi i casi, mediamente, un rapporto di lavoro su due è di tipo standard. Il quadro descritto mostra in sostanza quattro fenomeni:

  • in primo luogo che la domanda di lavoro per i profili professionali per l’ICT proviene da un cluster di imprese circoscritto che non è cresciuto nel corso degli ultimi cinque anni;
  • che le assunzioni in ICT hanno una natura frammentaria con contratti temporanei anche di breve durata soprattutto nelle imprese di piccole e medie dimensioni e per alcune qualifiche tecniche nell’area della produzione multimediale;
  • che nel caso delle professioni di natura tecnica ed ingegneristica legate al mondo dell’informatica, la quota di contratti permanenti è elevata;
  • che l’intero settore manifatturiero e quello delle telecomunicazioni assorbono una quota marginale delle assunzioni.

In questo contesto, quindi, un aumento significativo degli investimenti in formazione tecnologica e tecnica difficilmente viene considerato una priorità viste le caratteristiche e le dimensioni della domanda. Certo per le aziende che investono nell’economia digitale si tratta di un gap che ne limita le potenzialità di espansione. Ma nel complesso l’attuale sistema di offerta è “sufficiente” a garantire i fabbisogni delle imprese o, quantomeno, non c’è ancora nella società la percezione di una “emergenza formativa” tale da giustificare un aumento significativo degli investimenti. Ovviamente tale costatazione vale solo se si adotta una visione strettamente congiunturale. In una prospettiva anticiclica, infatti, occorrerebbe riflettere sulle enormi diseconomie generate dai ritardi nello sviluppo delle competenze digitali sia rispetto alla crescita delle diseguaglianze sia nel depotenziamento della capacità competitiva del sistema produttivo. Per questo sarebbe utile pensare politiche integrate che combinino il rafforzamento dell’offerta formativa, il sostegno alla domanda di competenze tecniche e tecnologiche delle imprese con i diversi programmi di sviluppo (tra cui industria 4.0) già oggi in essere; tuttavia per un paese troppo spesso abituato ad operare nell’emergenza, il tema non è ancora all’ordine del giorno.

 

Tabella 1 Distribuzione percentuale delle assunzioni per specialisti ICT per tipologia di contratto. Anno 2017  

Contratti attivati ICT_specialist
Tempo indeterminato 19,8%
Apprendistato 7,4%
Contratto di collaborazione 2,4%
Tempo determinato 59,2%
Altro 11,3%
Totale complessivo 100,0%

   Fonte elaborazione Anpal servizi su dati CO

 

1. La definizione dell’aggregato statistico relativo alle Professioni dell’Information and Comunicatinon Technology (ICT specialists) è quella data dall’OCSE. Esse sono intese come le figure professionali che si occupano de «lo sviluppo, la manutenzione o il funzionamento di sistemi ICT, e per le quali le ICT sono la parte principale del lavoro» [OCSE, 2005]. Eurostat ha tradotto operativamente questa definizione con riferimento alla classificazione internazionale delle professioni ISCO-08, e la precedente ISCO-88, utilizzando il 3° e il 4° digit [Eurostat, 2017].

2. Con il termine “imprese” ovvero “aziende o datori di lavoro” si intendono i codici fiscali/partite iva diversi che hanno effettuato almeno una Comunicazione Obbligatoria di attivazione nel periodo di riferimento.

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