Il testo del ‘decreto sicurezza’ (dl 92/2008 del 23 maggio), già approvato dal senato e attualmente in discussione alla camera, si sofferma, in alcune sue parti, su aspetti importanti riguardanti l’immigrazione; e lo fa – come suggerisce il titolo (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica) – focalizzandosi sul ‘pericolo criminalità’ che viene associato a segmenti dell’immigrazione regolare e, spesso, all’insieme del fenomeno dell’immigrazione clandestina.

L’intento appare chiaro, almeno sul piano delle enunciazioni. L’inadeguatezza degli strumenti proposti e, ancor più, la pericolosa confusione in merito ai destinatari di questo ‘giro di vite’, rendono il provvedimento fortemente controverso su un piano umanitario, giuridico e politico. L’obiettivo di tarpare le ali all’immigrazione ‘cattiva’ rischia seriamente di attuarsi a danno delle categorie di migranti più vulnerabili.

Molte delle critiche al decreto sono state avanzate da organizzazioni poste al di fuori dell’agone politico-parlamentare, tra le quali l’Unhcr (l’Alto Consiglio per i Rifugiati). Il Consiglio Superiore della Magistratura ha depositato il 1 luglio il proprio parere in merito al provvedimento, muovendo numerosi rilievi critici. Sul ‘decreto sicurezza’ gravano quindi non poche incognite, che vengono non dalle aule parlamentari ma piuttosto dalla stessa inapplicabilità – di ordine pratico e giuridico – di alcune norme del testo, le quali potrebbero cadere sotto la scure della Cassazione; questione, questa, già evidenziatasi con alcune disposizioni della Bossi-Fini, di fatto ‘cassate’ o modificate attraverso una serie di interventi giurisdizionali.

Una delle norme del decreto in esame prevede l’allontanamento dal territorio nazionale di tutti gli stranieri – comunitari compresi – che abbiano ricevuto una condanna giudiziaria di almeno due anni (anziché dieci, come previsto in precedenza). Si tratta di un provvedimento che, tra le altre cose, pone dei problemi di ordine amministrativo (con il rischio di ulteriore ‘ingolfamento’ della macchina giudiziaria, già satura) e di natura finanziaria (parlando di espulsioni coatte, è raro che in campagna elettorale si sollevi la questione degli elevati costi correlati).

In termini giuridici e applicativi, ed anche in base a considerazioni di ordine morale ed umanitario, la proposta di attribuire alla clandestinità il carattere di reato – o in subordine, di aggravante – appare l’aspetto più discutibile e negativo del decreto. La condizione di clandestinità non è di per sé associabile a un comportamento di natura deviante, a dispetto dell’intento sotteso alla norma, che si propone, su un piano culturale oltre che legislativo, di rafforzare lo stigma sociale associato al figura del clandestino.

Sono numerose le riserve emerse, sul piano teorico e procedurale, rispetto alla definizione della clandestinità come aggravante giudiziaria: il carattere di aggravante verrebbe infatti applicato, in modo del tutto arbitrario, rispetto a tipologie di reati che nulla hanno a che vedere con l’ingresso e la permanenza clandestina in Italia da parte dell’immigrato.

 La parola clandestino è di per sé polisemica e controversa. Proprio nel dibattito di questi giorni ricorre spesso una disinvolta sovrapposizione tra i termini ‘irregolare’ e ‘clandestino’.

‘Irregolare’ indica chi entra in modo legale nel territorio di uno Stato ma vi permane irregolarmente; in Italia questa condizione riguarda molti ‘extracomunitari’ che inoltrano richiesta di rinnovo del permesso di soggiorno attraverso tempi e modalità che possono comportare un respingimento della domanda. Negli ultimi anni si è verificato il ritorno a una condizione di clandestinità di moltissimi immigrati ‘emersi’ con la sanatoria del 2002 e con le precedenti regolarizzazioni. La legge Bossi Fini (n°.189/2002) ha comportato la riduzione della durata dei permessi di soggiorno successivi al primo rilascio e il passaggio dai 12 mesi ai 6 mesi di durata per il permesso di attesa occupazione; elementi che, uniti ai problemi – pregressi e successivi – legati alla discrezionalità e alla scarsa trasparenza delle procedure burocratiche, hanno concorso al ritorno – in forma silenziosa ma in dimensioni imponenti (quantificabili in alcune centinaia di migliaia di persone) – di un fenomeno, quello dell’immigrazione clandestina, che si intendeva combattere con le più severe misure.

Il termine ‘clandestino’ si riferisce a una persona che, a differenza dell’irregolare, è entrata ‘illegalmente’ nel Paese: sia che ciò sia avvenuto attraverso valichi di frontiera terrestri oppure via mare. Molti di coloro che entrano in Italia attraverso frontiere terrestri e la generalità delle persone che giungono attraverso le “carrette del mare” che solcano il Mediterraneo, sono vittime di trattamenti disumani, che rientrano nella tipologia criminale del trafficking, ossia la tratta di essere umani. Si tratta di persone bisognose di protezione sociale, del resto esplicitamente ammessa nel nostro ordinamento ai sensi dell’articolo 18 del Testo Unico sull’immigrazione.

Molti fuggono da situazioni di conflitto o persecuzione su base sociale e nazionale, in un contesto nel quale la differenza tra migrante economico e migrante per ragioni politiche è appesa a un filo sottile. Una su tre delle persone che sbarcano sulle coste italiane fa richiesta di asilo e uno su cinque beneficia di una qualche forma di protezione legale.

Ai sensi delle disposizioni approvate dal precedente governo in materia di protezione umanitaria e diritto di asilo (dlgs 25/08 e 251/2007), tutte queste persone hanno diritto a richiedere il riconoscimento dello status di rifugiato senza che la loro domanda possa essere discrezionalmente respinta dalle autorità di polizia preposte a recepirne la richiesta. Si tratta di disposizioni che recepiscono le indicazioni e gli standard di tutela emersi in sede europea.

Con le nuove norme previste dal decreto sicurezza, ai richiedenti asilo verrebbe applicata la fattispecie di reato o di aggravante legata alla clandestinità, dal momento che la stragrande maggioranza di essi fuggono dal proprio Paese senza potersi avvalere di mezzi di ingresso regolare nello Stato di accoglienza. Di conseguenza essi verrebbero catalogati nel “calderone” degli immigrati clandestini divenendo passibili di espulsione. Questa ipotesi contravviene, tra l’altro, le Disposizioni della Commissione Europea a salvaguardia dei Diritti dell’Uomo, che all’articolo 3 vieta l’espulsione di persone che provengono da Paesi nei quali possono subire torture o trattamenti inumani.

L’ipotesi legislativa al vaglio introduce pertanto, in termini neppure troppo surrettizi, l’idea che una categoria di persone che fugge da situazioni di grave pericolo – quale è quella dei richiedenti asilo – rappresenti una minaccia dalla quale difendersi, anziché essere considerata come una fascia particolarmente vulnerabile e meritevole di protezione.

E’ importante che una politica che intenda combattere i problemi gli aspetti di devianza legati all’immigrazione sappia scegliere gli strumenti giusti e ancor più gli obiettivi giusti, e non compia passi culturali e legislativi di carattere regressivo. A tale riguardo, la “comunitarizzazione” della politica estera in materia d’immigrazione e diritto di asilo – sancita dal trattato di Amsterdam, confermata nel vertice di Tampere e divenuta operativa dal 2004 – è divenuto un elemento ineludibile con cui la legislazione italiana deve misurarsi. Se essa non pone al riparo dal rischio di una “securitarizzazione” in materia di politiche di immigrazione – dal momento che è un approccio che certamente non riguarda solo l’Italia – può tuttavia evitare che si compiano taluni passi indietro che sembrano profilarsi all’orizzonte in materia di diritto di asilo e in riferimento all’ipotesi di reato di clandestinità.

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