Il benessere, a cui la sanità contribuisce, ha cambiato le prospettive di vita della popolazione. La sfida per il futuro è far sì che la longevità non sia solo fonte di costi ma anche di nuove opportunità di sviluppo. Le politiche sanitarie devono imparare a pensarsi in termini ampi andando oltre l’ambito assistenziale

Nei Paesi maggiormente sviluppati la politica sanitaria sembra essere in “ostaggio” della scarsa crescita economica, la quale rende non più possibile la crescita dei servizi sanitari (e della relativa spesa) ai tassi sinora registrati: malgrado sia indubbio che tale crescita abbia fortemente contribuito al significativo miglioramento della salute e all’aumento dell’aspettativa di vita.

(…) L’Italia sia per il ridotto tasso di crescita sia per l’ingente debito pubblico accumulato (i cui oneri finanziari assorbono risorse significative), appare in questo momento in particolare difficoltà, registrando un livello di spesa sanitaria inferiore di circa il 30% a quello dei Paesi appartenenti a EU14, con una forbice che continua ad allargarsi ad un tasso vicino al 2% annuo.

Sebbene sia condivisa la meritorietà degli investimenti in Sanità, la consapevolezza dei tempi rilevanti con cui generano il ritorno atteso, tende a mortificare il livello di priorità attribuito alle politiche sanitarie nelle agende governative. Appare evidente come le prospettive della politica sanitaria dipendano fortemente dagli andamenti economici, e anche come non possano rimanere confinate al solo ambito nazionale. Ad esempio, di recente si sono sperimentati elevatissimi tassi di crescita dei costi unitari delle nuove tecnologie, che sembrano spinti da ragioni legate più ad aspetti di finanza, che non a logiche di profitto aziendale.

(…) Da un punto di vista sociale si configura così una condizione di forte inefficienza (sub-ottimale trattamento dei pazienti e alti costi unitari delle terapie), che può essere contrastata solo con interventi a livello sovra-nazionale, capaci di incidere e modificare gli attuali schemi di finanziamento della ricerca e di accesso al mercato delle innovazioni.

Su questo tema l’Italia ha, sinora, adottato una strategia improntata a sfruttare l’interesse delle multinazionali a utilizzare politiche di discriminazione di prezzo, ottenendo di ritorno sconti (specialmente in campo farmaceutico), frutto di varie modalità di negoziazione opaca (non ufficialmente dichiarata) dei prezzi: strategia che è, però, plausibilmente prossima ad avere raggiunto il punto di massima efficacia, avendo portato i prezzi presumibilmente molto vicino ai livelli considerati di riserva per i produttori; proseguendo ulteriormente su tale strada si potrebbe, quindi, assistere ad un rapido ridimensionamento della sua efficacia, e qualora l’Italia dovesse poi essere costretta ad adottare forme di razionamento delle innovazioni ammesse al rimborso pubblico, è facile paventare rischi per la tenuta del SSN pubblico e fughe di pazienti verso l’estero.

In primo luogo, quindi, la politica sanitaria italiana deve rigenerarsi ampliando il suo raggio di azione, e promuovendo con coraggio riflessioni di policy a livello almeno europeo: solo con un maggior coordinamento sovranazionale e una nuova attenzione al settore sanitario, si possono rendere sostenibili i livelli delle garanzie sanitarie nel medio-lungo periodo. Non sono inferiori le sfide a livello nazionale per le politiche sanitarie; quelle più rilevanti, senza un rigido ordine di priorità, appaiono essere:
a livello macro la revisione delle regole dell’universalismo del servizio pubblico
a livello micro l’aumento dell’accountability in termini di qualità dell’assistenza
la risposta ai cambiamenti demografici e sociali, e in primo luogo alla non autosufficienza;
la coniugazione delle politiche assistenziali e industriali.

Sul primo punto possiamo osservare come le tendenze in atto, in particolare la prolungata stagnazione del finanziamento pubblico del SSN, rende in prospettiva sostanzialmente impossibile continuare a garantire in modo quasi gratuito le attuali tutele, estese a tutti sulla base del solo requisito di cittadinanza. A riprova di ciò, i sintomi di razionamento sono in crescita e le aree di non copertura del SSN (es. odontoiatria e non autosufficienza) sembrano destinate a continuare a rimanere fuori dall’area di esigibilità sostanziale da parte delle famiglie italiane, malgrado la loro crescente rilevanza sociale.

Questo scenario, e anche valutazioni di efficienza (legate ai fenomeni di moral hazard, che in Sanità si estrinsecano con i rischi di inappropriatezza delle prestazioni erogate, fra cui si situa anche il fenomeno della medicina difensiva), impongono una riflessione sulla opportunità di passare a meccanismi di “universalismo selettivo”, che in definitiva configurano un ritorno alla originaria indicazione costituzionale, che prevedeva cure gratuite per i soli indigenti.

Tale cambiamento, non scevro di impatti in termini di incentivi/disincentivi che implica, permetterebbe di continuare a mantenere la copertura universale dell’assistenza, nei casi in cui essa comporta un impatto economico rilevante, aumentando la responsabilità individuale e quindi l’onere delle famiglie nel far fronte autonomamente nel caso di eventi dall’impatto economicamente “trascurabile”.

Purtroppo tale impostazione trova un limite, per ora insormontabile, nella scarsa affidabilità della prova dei mezzi in Italia e quindi nell’iniquità del sistema fiscale. Non di meno, la teoricamente riconosciuta superiorità equitativa del sistema universalistico, cade in assenza di un sistema fiscale anch’esso equo: si conferma così che le politiche sanitarie sono strettamente interrelate alle politiche economiche e sociali in generale e che, quindi, su un piano di equità non è permesso scinderle.

Malgrado le citate difficoltà, l’universalismo selettivo permetterebbe altresì la rivitalizzazione delle forme di sussidiarietà nel settore sanitario, ad iniziare dallo sviluppo di un secondo pilastro complementare a quello di base. In un contesto modificato, assumerebbe anche significato compiuto l’esistente normativa, ove destina ai Fondi sanitari integrativi il ruolo di erogazione delle prestazioni non ricomprese nei LEA: allo stato attuale, infatti, essa finisce per delineare una condizione paradossale, in quanto risultando escluse dai LEA le sole prestazioni non ritenute appropriate, restringe lo spazio dei Fondi ad un ruolo inefficiente e comunque residuale, al più, nel caso delle fasce più abbienti, sostitutivo. Di contro, una maggiore e generalizzata responsabilizzazione individuale, evidenzierebbe l’esistenza di prestazioni appropriate e meritorie anche al di fuori dell’area di rimborso (che poi è erogazione gratuita) pubblico: tali prestazioni potrebbero essere prese in carico dal forme di assicurazione complementare, giustificando quindi il riconoscimento di un ruolo meritorio del secondo pilastro.

A livello micro va, invece, sottolineato come le politiche sanitarie degli ultimi 25 anni siano state essenzialmente, se non quasi esclusivamente, improntate alla ricerca di una maggiore responsabilizzazione finanziaria degli attori del sistema. Il forte ridimensionamento dei deficit sanitari ormai raggiunto, permette il passaggio ad una nuova fase, che ponga maggiore attenzione alla responsabilità degli erogatori sui livelli qualitativi dell’assistenza.

La questione è rilevante in quanto, per i cittadini italiani, è ancora complesso esigere le prestazioni a loro dovute, essendo non del tutto espliciti i contenuti delle suddette: ad esempio, in termini di tempi, modalità di erogazione, di servizi resi etc. Esigibilità resa ancora più complessa dall’avvento del federalismo e dal conseguente decentramento del potere legislativo in Sanità, che tende a diversificare sempre più i criteri di accesso alle tutele.

Qualche importante passo avanti è stato fatto sul piano della misura della qualità clinica e, in particolare, degli esiti dei ricoveri (per lo più chirurgici); poco è, invece, ancora stato sviluppato per rendere accountable la grande massa degli interventi sanitari, che si realizzano fuori dalle mura ospedaliere. Prestazioni spesso non di elevata complessità clinica, ma altrettanto impattanti sulla qualità della risposta ricevuta dal cittadino.

Ne segue che sarebbe auspicabile ci fosse un maggiore impegno profuso per inserire nei diritti dal cittadino non solo l’accesso alla “cura” in quanto tale, ma anche una esplicitazione delle modalità di erogazione; sarebbe interessante immaginare la possibilità di implementazione del principio del diritto alla “minimizzazione degli impatti sulla vita” dei pazienti e delle loro famiglie.

In altri termini, troppo spesso l’attenzione viene ancora posta sulla sola qualità “clinica” dell’atto assistenziale, e quindi sugli esiti di salute, dimenticando che il fine ultimo dell’assistenza sanitaria (e sociale) è l’ottimizzazione della qualità di vita possibile per il paziente e i suoi care giver. Il passaggio ad una visione più olistica della tutela appare essenziale, osservando i cambiamenti della società e della medicina, basati sempre più sull’empowerment dei pazienti e sul riconoscimento dell’autodeterminazione della persona.

(…) Paradigmatica è la crescita di quelli legati alla non auto-sufficienza, i quali richiedono approcci innovativi: sebbene la non-autosufficienza è per lo più la conseguenza di perdite di salute, l’elemento sociale risulta è importante quanto, e forse più, di quello sanitario. Spesso i livelli di autosufficienza dipendono tanto dai livelli oggettivi di salute, quanto dal contesto socio-economico in cui il soggetto vive.

(…) Il sistema sanitario, malgrado la significativa riduzione dei posti letto, rimane invece nella sostanza tipicamente ospedalo-centrico, e la sua organizzazione diventa rapidamente obsoleta rispetto ai bisogni emergenti, complessi e diffusi, che richiedono nuove modalità di risposta.

(…) La rigenerazione delle politiche sanitarie passa per una apertura a nuovi ambiti di integrazione, sia a livello tecnologico sia a livello di ristrutturazione degli spazi di vita (edilizia, urbanistica).

(…) Gli scenari delle politiche sanitarie dipenderanno dai tassi di crescita economica, ma è anche vero che il ruolo propulsivo diretto (produzione di beni e servizi) e indiretto (maggiore benessere e produttività) del sistema salute può incidere sui tassi di sviluppo economico: il suo contributo è stato forse scarsamente analizzato e compreso, sebbene sia largamente condiviso che sia assolutamente significativo.

(…) Sinora il termine politiche sanitarie in Italia è risultato sinonimo di politiche assistenziali: un compito rilevante per rigenerare l’intervento è, però, quello di riassumere nel termine anche l’attenzione per le politiche industriali. Il benessere, a cui la sanità contribuisce per la sua parte, ha cambiato le prospettive di vita della popolazione, modificandone radicalmente la struttura demografica e i bisogni: la sfida più rilevante per il futuro è far sì che la longevità non sia solo fonte di costi aggiuntivi, ma anche di nuove opportunità di sviluppo industriale, che tornino a rendere coerenti i tassi di miglioramento nello stato di salute con i tassi di crescita economica. Le politiche sanitarie devono quindi imparare a pensarsi in termini ampi e non più costretti nel mero ambito assistenziale.

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