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La ricchezza di un paese non sta nelle banconote stampate ma nella somma di competenze, sudori e qualità tecnologica delle proprie imprese. Se non facciamo molta attenzione a curare i limiti della misura e non ci occupiamo nel contempo di sostenere le ragioni della creazione di valore e di ricchezza rischiamo di non riuscire affatto a realizzare l’obiettivo di migliorare le condizioni degli ultimi e degli scartati che il reddito di cittadinanza lodevolmente si pone

Il lungo iter di costruzione del reddito di cittadinanza (non ancora ultimato in tutti i suoi dettagli attuativi) con il conseguente aspro dibattito nell’opinione pubblica ha progressivamente migliorato l’idea iniziale anche se le perplessità e i problemi sono molti e rimangono.

Partiamo innanzitutto dal fatto che una rete di protezione universale per gli “scartati” (come direbbe papa Francesco) e per gli ultimi è un progresso importante rispetto al vecchio approccio in uso nel nostro paese dove le tutele per un licenziato dall’Alitalia erano molto superiori rispetto a quelle di un poteva ottenere un lavoratore licenziato da una piccola impresa.

Da un punto di vista concettuale l’idea di questa rete di protezione trova consensi sia a sinistra che a destra. Vale la pena ricordare che alcuni alfieri del pensiero liberale si sono espressi in favore di una misura simile. Così Hayek secondo il quale “assicurare un reddito minimo a tutti, o un livello sotto cui nessuno scenda quando non può più provvedere a se stesso, non soltanto è una protezione assolutamente legittima contro rischi comuni a tutti, ma è un compito necessario della Grande Società in cui l’individuo non può rivalersi sui membri del piccolo gruppo specifico in cui era nato” (Friedrich A. von Hayek, Legge, legislazione e libertà, Il Saggiatore, Milano 1986; p. 429).

E lo stesso Einaudi da noi affermava “molte invenzioni non prendono corpo, che molti progetti non si attuano perché i più degli uomini sono costretti a una vita dura che assorbe tutte le loro forze e la loro intelligenza. Se un minimo di punto di partenza consentisse ai giovani di poter continuare a studiare, a fare ricerche, ad inventare, a trovare la propria via senza dover fin da troppo giovani lavorare nelle fabbriche, verrebbero fuori studiosi e inventori che oggi non ne hanno la possibilità. A questo ideale dobbiamo tendere”  (Einaudi, Lezioni di politica sociale, Einaudi, Torino, 1949; pp. 80-81).

La storia recente del nostro paese parte dal provvedimento del reddito d’inclusione costruito dal governo passato assieme all’Alleanza contro la Povertà. La misura è finanziata con risorse tre volte inferiori a quelle necessarie per raggiungere tutti coloro sotto la soglia di povertà. Vengono pertanto definite condizioni più restrittive per l’accesso che viene limitato soltanto ad alcune categorie particolarmente bisognose. Il reddito d’inclusione prevede che una parte delle risorse siano destinate alla presa in carico del beneficiario per costruire una relazione che cerchi di farlo uscire dalla propria condizione di marginalità.

L’idea di reddito di cittadinanza del Movimento Cinquestelle è all’inizio utopica. In campagna elettorale si parla di reddito minimo incondizionato per tutti. Durante il percorso di realizzazione la misura diventa via via più realistica arrivando alla situazione attuale. Un reddito per 18 mesi rinnovabile una sola volta. Che dovrebbe portare un single alla soglia di povertà di 780 euro al mese e le famiglie alla soglia equivalente calcolata con opportuni coefficienti di conversione. E’ prevista la dote contributiva per la quale chi dà lavoro al beneficiario può ottenere i mesi rimanenti di reddito di cittadinanza in premio. Il premio va diviso a metà con chi eventualmente (Centro per l’impiego o agenzia privata) aiuta a realizzare l’incontro tra impresa e aspirante lavoratore. Il reddito di cittadinanza va anche a chi non è in età da lavoro (per gli anziani diventa dunque una pensione di cittadinanza). E’ prevista l’assunzione di “navigator” che dovrebbero aiutare l’incontro tra beneficiario e imprese.

I problemi sono tanti. Il primo e più serio è come evitare che il reddito di cittadinanza riduca l’incentivo di chi lo riceve a cercare lavoro o a cumularlo con un’attività in nero. Il fatto che la misura sia a tempo è da questo punto di vista molto importante e limita l’incentivo all’abuso. Per mantenere la soglia simbolica dei 780 euro per i single ed evitare che il conto per il Tesoro diventi esorbitante gli estensori della misura “risparmiano” sulle famiglie. Usando un coefficiente di conversione molto penalizzante rispetto a quelli solitamente utilizzati in questi casi per rendere equivalente il reddito di un single con quello di una famiglia. Ancora, si è molto discusso e si discute sul fatto che in Italia l’Istat definisca soglie di povertà diverse per area geografica e per residenza in piccoli e grandi centri e che di questo non si sia considerato nella definizione del reddito di cittadinanza.

Per intenderci la soglia di povertà in un piccolo centro del Sud è 560 euro mentre quella in una grande città del nord è 810 euro. Non tenerne conto e fissare una soglia unica vuol dire sovrastimare la povertà al Sud e sottostimarla al Nord. Si obietta a questo che, se è vero che il costo della vita al Sud è più basso, anche la qualità dei servizi lo è (si pensi al problema della migrazione sanitaria dal Sud verso il Nord) e dunque le due cose si compensano.

Uno dei problemi più importanti è quello della mancanza di risorse per la formazione. Semplificando (ed escludendo chi non è in età da lavoro) la struttura del reddito di cittadinanza funziona nell’aiutare il beneficiario a trovare un lavoro se il problema è quello di un mismatch statico tra domanda ed offerta. Ovvero, ci sarebbe un matrimonio perfetto tra impresa con un posto vacante e percettore del reddito di cittadinanza ma i due non si conoscono e non si incontrano (e il navigator li fa incontrare). Il più delle volte il problema è molto più complesso. Esiste una carenza strutturale di posti di lavoro o esistono posti vacanti e disoccupati ma chi non ha lavoro deve fare un percorso di formazione per diventare occupabile in quei posti vacanti. Dunque la formazione diventa strategica ma le risorse per la formazione per ora nel reddito di cittadinanza non ci sono.

L’effetto macroeconomico del reddito di cittadinanza appare inoltre fortemente sovrastimato dai suoi estensori. Se è vero che tutti i soldi erogati devono essere e saranno consumati è anche vero che l’impatto moltiplicativo resta limitato. Aumentare le risorse sul reddito di cittadinanza e contemporaneamente ridurre l’enfasi sul sostegno all’investimento delle imprese (il programma industry 4.0 del passato governo) vuol dire trascurare il fatto che i meccanismi di creazione di ricchezza e valore economico sono condizione necessaria per la possibilità di misure redistributive.

La ricchezza di un paese non sta nelle banconote stampate ma nella somma di competenze, sudori e qualità tecnologica delle proprie imprese. Se non facciamo molta attenzione a curare i limiti della misura e non ci occupiamo nel contempo di sostenere le ragioni della creazione di valore e di ricchezza rischiamo di non riuscire affatto a realizzare l’obiettivo di migliorare le condizioni degli ultimi e degli scartati che il reddito di cittadinanza lodevolmente si pone.

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