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Come cittadini di questo Paese e come credenti, la nostra primaria responsabilità è verso il bene comune di tutti coloro che abitano la città terrena. La crisi della democrazia rappresentativa e partecipativa – di cui l’astensionismo è una spia – ci interessa in prima persona, e ci preoccupa, ha infatti raggiunto limiti oltre i quali non è in discussione il vantaggio di questa o quella forza politica, ma la tenuta stessa delle regole di convivenza.

Come cittadini di questo Paese e come credenti, la nostra primaria responsabilità è verso il bene comune di tutti coloro che abitano la città terrena.

La crisi della democrazia rappresentativa

La crisi della democrazia rappresentativa e partecipativa – di cui l’astensionismo è una spia – ci interessa in prima persona, e ci preoccupa, ha infatti raggiunto limiti oltre i quali non è in discussione il vantaggio di questa o quella forza politica, ma la tenuta stessa delle regole di convivenza. Peraltro pare di capire che i partiti siano relativamente preoccupati dall’aumento dell’astensione, in fondo ai fini dell’elezione, non è necessario un quorum. Ma dobbiamo convenire che, invece, per un sistema democratico sano, lo è.

Sabino Cassese ha scritto che dobbiamo abituarci ad una democrazia «sempre meno partecipata» ed ha richiamato alcuni numeri, magari noti, ma su cui è bene riflettere. Dal 1948 al 1976, nelle consultazioni nazionali la partecipazione al voto ha oscillato intorno al 92% per cento, registrando poi una erosione progressiva scendendo intorno al 72%. Alle amministrative, del novembre 2017, in Sicilia è stata di poco inferiore al 47%. Ma ancora più che grave è la percentuale del 37% toccata alle ultime amministrative in Emilia Romagna, in una regione cioè tradizionalmente politicizzata; un dato che ci dice come stiano andando a confluire nel non voto anche cittadini, fino a poco tempo fa, impegnati in prima persona.

Non tutto può essere attribuito al disinteresse per la politica. Secondo dati dell’Istituto nazionale di statistica, – ha notato ancora Cassese – la partecipazione politica attiva, a livello nazionale, «è limitata a un 8% di italiani con più di 14 anni (erano il 10% nel 2008), ma quella passiva «invisibile» (quella di chi parla di politica, ascolta dibattiti politici, si informa dei fatti della politica) è del 77% .

Ci possiamo chiedere se dobbiamo sempre più abituarci ad una visione diversa di democrazia rispetto quella che abbiamo in mente e che si è manifestata nei decenni del secondo dopoguerra. A me pare che non sia il caso di no e ritengo che una parte decisiva del nostro impegno politico oggi, debba andare nella direzione di riconnettere i cittadini con la politica.

Dietro il non voto

Il non voto è stato oggetto di molte riflessioni, la difficoltà, purtroppo, riguarda non tanto l’analisi quanto i rimedi. Perché non si tratta di affrontare solo il fenomeno dell’antipolitica quanto di togliere spazio effettivo a questa questione con una buona proposta politica. Se l’antipolitica, il populismo, catalizzano larghi consensi, il non voto pare dichiarare la crisi stessa della società da parte di coloro che rinunciano ad un diritto fondamentale alimentando la disgregazione del quadro sociale. «Si ha un bel da dire – notava Zagrebelsky – che, astenendosi, i cittadini reagiscono in quel modo al degrado della politica “lanciando segnali”: nel frattempo, però, non fanno altro che dare maggiore potere a coloro contro i quali vorrebbero dirigere la loro protesta».

Molti sono gli esempi che potremmo fare per prendere in considerazione la serietà del sintomo che si manifesta con l’astensionismo. Vi sono casi, anche su campioni molto piccoli, che appaiono però significativi e che ci fanno capire come anche i sistemi elettorali adottati, abbiano una influenza sul non voto. È il caso delle elezioni che si sono tenute ad Ostia e nell’intero X municipio di Roma, dove si è visto chiaramente come siano stati principalmente gli elettori dei candidati sconfitti al primo turno a contribuire all’allargamento dell’area del non-voto. Soprattutto gli elettori del candidato del Pd (Athos De Luca) hanno deciso, in larga maggioranza, di disertare le urne, evitando così di scegliere tra il M5s e il centrodestra.

 

Domanda e offerta: qualcosa non funziona

I sistemi elettorali contano certo, ma guardando dalla parte dell’elettore, si vede come il problema riguardi in prima battuta l’offerta messa in campo dai partiti, anzi i partiti stessi. Ha notato De Rita come sia abbastanza inutile richiamare al dovere del voto o al voto utile e come sia necessario essere invece essere «consapevoli del fatto che oggi nel conclamato disinteresse della gente vince una componente né politica né culturale, ma antropologica: abbiamo di fronte un elettorato vagotonico, propenso più a ricaricarsi che a entrare in campo, indifferente a quel che avviene nella vita comunitaria, appiattito sulle proprie scelte personali, quasi prigioniero di un sopore difficile da smuovere: un elettorato senza condivisione di sentimenti collettivi».

I motivi quindi dell’astensione – dice De Rita – non sono più soltanto quelli più noti e emergenti: la rabbia contro la casta, la delegittimazione della classe dirigente, l’indignazione e la denuncia anticorruzione, l’aggressione anche volgare di ogni avversario, il «vaffa» corale ed entusiastico nelle piazze, il plauso alla rottamazione, il moralismo dilagante, la speranza di un uomo o di un governo «forte».

Molto è cambiato e sta cambiando in una politica che fatica ad offrire obiettivi condivisi, percorsi efficaci per lo sviluppo del Paese, in un quadro di giustizia e di solidarietà. Come dire che manca il progetto, la visione che la politica deve essere capace di costruire. La crisi della politica mette a nudo la crisi della partecipazione democratica.

Dobbiamo riconoscere il profondo disagio che vive il corpo elettorale: l’estensione della crisi a fasce sempre più vaste della classe media, l’impossibilità di mantenere un determinato tenore di vita, la mancanza di prospettiva, la preoccupazione per il futuro dei figli, ecc.

Certo c’è rabbia, c’è protesta ma soprattutto c’è bisogno di proposte, mentre i partiti sembrano giocare pericolosamente con indicazioni e dichiarazioni roboanti e irrealizzabili o con la scelta di persone che possono catalizzare il voto. Ma spesso non si tratta di persone competenti per materia, di persone che si potranno esprimere nel loro campo realizzando iniziative legislative; si tratta di persone prese come simboli, come testimonial. È una scelta che riguarda più il mercato che la politica; si confeziona un prodotto che possa andare nella direzione dei sondaggi, del cosiddetto rinnovamento. E allora si mettono in lista dei giovani… poco importa se dietro di loro gli stessi leader ululano la loro volontà di cambiamento, nascondono e riciclano politici di lungo corso e questi saranno destinati a contare mentre i voti utilizzati per il maquillage saranno ininfluenti nelle scelte e nei processi (ma verranno utilizzati tanto nella comunicazione). Si lanciano slogan cui non corrisponde nulla, si fanno promesse, si dà addosso all’avversario mettendone in luce contraddizioni e difetti, ma non c’è un serio e approfondito programma, dedicato a mettere in luce gli orientamenti in base ai quali si dovrà scegliere da una parte e dall’altra.

Il sistema democratico e i partiti

In definitiva  dobbiamo misurarci con la crisi politica che mette a nudo la fragilità del sistema democratico e quella degli stessi partiti. Certo esiste a monte un problema formativo che investe famiglia, sociale, associazionismo. Ma per la politica è necessario che vi siano strumenti efficaci  di mediazione come quello previsto dall’articolo 49 della Costituzione: il Partito.

Come non notare che dietro il conclamato caso di astensionismo che affligge la democrazia nostrana, è riconoscibile un ulteriore elemento che rimanda alla crisi dei partiti e alla loro sostanziale incapacità di affrontare questo momento alimentando speranze per il futuro. Mi riferisco al fatto, già richiamato, che ad astenersi ormai, per protesta e perché non ci si riconosce nelle proposte dei partiti, non è più un bel frammento bensì un ampio numero di elettori che in passato, fino a poco fa, hanno militato in un partito, essendone magari in qualche caso quadri dirigenti o amministratori. C’è uno scontento che riguarda il vissuto e la prassi dei partiti e che offre una indicazione importante.

Al di là del modello che potremmo costruire nella democrazia del futuro, dobbiamo avere chiaro che non potremo fare a meno dei partiti, comunque li vogliamo chiamare e qualunque forma gli vogliamo dare. Questo strumento di mediazione risulta indispensabile: senza luoghi di mediazione la partecipazione è illusoria. Ci aiuta in questo senso considerare quanto possiamo constatare nel panorama odierno dove il partito personale, il partito mediatico e dei sondaggi finisce per far scomparire il partito di programma, cioè quello che chiede consenso in base a  programmi chiari e realizzabili.

La strada e lunga. Dovremo ripensare, accanto al modello della democrazia rappresentativa, una ulteriore funzione di facilitazione e di organizzazione delle forme della democrazia diretta e deliberativa, non in modo antagonista, ma in forma collaborativa, per facilitare e raccogliere consenso. Va inoltre notato come la crisi non sia solo italiana.

Il quadro internazionale in cui ci troviamo ci dice infatti di una crisi del modello democratico europeo dove è sempre più difficile. Chissà che l’Europa non possa essere un’opportunità per uscire anche dai nostri problemi.

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