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Il deficit di credibilità di cui soffre il credito cooperativo non è dovuto, solo, ad un deficit etico delle istituzioni bancarie, ma anche ad una scarsa consapevolezza etica dei soci/consumatori. La lezione di Maritain ci spinge ad un ripensamento radicale della dimensione economica da concepire, di nuovo, come strumento al servizio del bene comune

Non è certo motivo di originalità segnalare le difficoltà che sta attraversando il mondo del credito cooperativo, da più parti considerato incapace di reggere le sfide dei tempi. Troppo piccoli gli istituti per sostenere le pressioni di un mondo globalizzato, troppo chiusi per attirare capitali, troppo legati a modalità di partecipazione e di gestione del credito per garantire efficienza ed efficacia.

I problemi di governance qui richiamati sono sicuramente importanti, ma altri, più titolati, potranno ragionarne con profitto. Quello su cui io vorrei invece riflettere sono i problemi che riguardano la base: i correntisti e i soci del variegato mondo delle BCC e delle popolari. Provo a farlo a partire da alcune domande: quanto dell’attuale crisi è dovuta al venir meno, nel sentire diffuso, dei valori e della visione da cui è germogliata l’esperienza del credito cooperativo? Quanto è diffusa la consapevolezza che un diverso modo di fare banca – che poi dovrebbe essere il volto autentico di un sistema finanziario al servizio dell’umano – rappresenta un valore aggiunto al pari e forse più di un dividendo? E quanto, questa consapevolezza, si traduce in una partecipazione reale e in una vigilanza attenta su quanti ricoprono ruoli di responsabilità nel governo degli istituti di credito?

Ciò che queste domande vorrebbero suggerire è che, forse, il deficit di credibilità di cui oggigiorno soffre il credito cooperativo non è dovuto, solo, ad un deficit etico delle istituzioni bancarie, ma anche (e forse soprattutto) ad un deficit di consapevolezza etica dei soci/consumatori. Se passa l’idea che “una banca è una banca” e che, in fondo, l’obiettivo degli azionisti è solo quello di veder aumentare i dividendi e che, d’altro canto, l’obiettivo dei correntisti è solo quello strappare le migliori condizioni di mercato, appare evidente che ogni riferimento etico-valoriale si riduce, se va bene, ad un orpello folkloristico. Il rischio, però, è quello di certificare l’inconciliabilità tra etica e finanza, magari accarezzando il sogno di una fuga dal mercato.

È interessante notare come tale opzione fosse stata esplorata anche dall’ultimo Maritain, quando, ormai anziano, suggerì la desiderabilità di Una società senza denaro. Ciò che il filosofo francese aveva a cuore era, soprattutto, la possibilità di costruire una società rispettosa della dignità umana e capace di sostenere la vocazione dell’uomo alla libertà e alla comunione fraterna. L’itinerario per conseguire tale risultato era individuato, da Maritain, precisamente in un ripensamento radicale della dimensione economica, non più separata dalla morale, bensì strumento al servizio del bene comune.
In teoria e in astratto, osserva Maritain, si può certo immaginare l’instaurarsi di un rapporto fecondo tra denaro, dimensione economico/produttiva e crescita comunitaria. Questo potrebbe accadere laddove il denaro investito servisse a sostenere le imprese e queste avessero a cuore il bene della persona. Il denaro per il lavoro e quest’ultimo per l’uomo.

Ordinariamente, però, accade esattamente il contrario: l’uomo è visto come un mezzo al servizio della produzione e il lavoro viene subordinato alla massimizzazione del capitale. Già agli inizi degli anni Trenta – non a caso all’indomani di una gravissima crisi finanziaria – Maritain aveva osservato come, troppo spesso, «invece d’essere considerato un semplice alimento dell’organismo e uno strumento per il rifornimento di quell’organismo vivente che è un’impresa di produzione, il denaro stesso viene considerato come l’organismo vivente, e l’impresa, con le sue attività umane, l’alimento e lo strumento di esso: per modo che i guadagni non sono più il frutto normale di un’impresa alimentata dal denaro, ma il frutto del denaro alimentato dall’impresa» (cfr. Maritain, La fecondità del denaro, 1930).

È proprio questa inversione dei valori che l’ultimo Maritain denuncia nel momento in cui critica l’idea che il denaro possa essere fertile e dare frutti. Inversione che conduce ad anteporre ai diritti del salario quelli del dividendo e a individuare nel maggior profitto possibile l’unico criterio guida delle relazioni economiche. E questo è ancor più vero quando si parla di banche, la cui liceità morale dovrebbe invece radicarsi – come ben ci ricorda l’economista civile Luigino Bruni – nel valore sociale di un credito capace di contrastare la miseria e l’usura.

Il credito cooperativo, è bene ricordare, affonda le radici proprio nell’idea che sia possibile fare del denaro uno strumento di crescita umana, concedendo credito a chi ne sarebbe escluso, costruendo reti di solidarietà e di cooperazione; in breve favorendo una logica di comunità. Sarebbe opportuno che questi valori non restassero rinchiusi nelle varie carte – dei valori, della coesione, della finanza – ma si traducessero in pratiche concrete e coerenti. Se il credito cooperativo non saprà rimettere in circolo una “grammatica del noi”, se non saprà alimentare in modo credibile l’idea che è davvero possibile un matrimonio tra etica e finanza, tra banca e responsabilità sociale, tra legittimo interesse individuale e co-partecipazione ad un’avventura comunitaria, avrà perso la sua sfida più importante.

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