La recente Enciclica “Caritas in veritate” dice testualmente (n.34) che “la carità nella verità pone l’uomo davanti alla stupefacente esperienza del dono”, anche se al contempo aggiunge (n.34) che “la gratuità è presente in molteplici forme, spesso non riconosciute”. Ma che interpretazione possiamo dare del dono? Perché è stato occultato nella società e nell’economia contemporanee? Con quali conseguenze? Che implicazioni può avere la sua riscoperta?

Possiamo mettere a confronto due principali interpretazione del dono: quella purista e quella relazionale. Entrambe si preoccupano di prendere le distanze dalla nozione di scambio di mercato, anche se insistono su aspetti diversi. Secondo l’interpretazione purista il dono è un atto gratuito, unilaterale, disinteressato, discontinuo. Gratuito perché viene fatto senza aspettative di restituzione, unilaterale perché procede a senso unico dal donatore al donatario, disinteressato perché non mosso dall’interesse personale, discontinuo perché si esaurisce nell’istantaneità del momento donativo non presupponendo alcuna circolarità. Ciò che sta più a cuore della interpretazione purista è ribadire la non simmetricità del dono, perché essa è garanzia di non contaminazione da parte dello scambio di mercato da cui deve, secondo i sui teorici (J.Derrida, J.LMarion), nettamente differenziarsi. E` però una concezione talmente sublime di dono, i cui requisiti sono così eroici da poter essere soddisfatti nel mondo reale, da rasentare l’impossibilità ontologica o da avvicinarsi alla figura estrema del “sacrificio”. Secondo l’interpretazione relazionale (elaborata da A. Caillè e J. Godbout), il dono non è un atto gratuito dato che pretende di essere contraccambiato, implica reciprocità, anche se questa è assai diversa dallo scambio di mercato sotto vari profili (il più importante è il fatto che la restituzione nel caso del dono è libera e lontana dal rispetto dell’equivalenza). La non sicurezza di essere contraccambiati presuppone inoltre una grande fiducia negli altri, fiducia che è alla base di ogni convivenza civile e del mercato stesso. Ecco perché il dono non è un atto unilaterale, ma serve a instaurare/rafforzare i rapporti sociali, ha pertanto una valenza politica riscontrata, in primis, nelle società arcaiche (in quanto trasforma i nemici in alleati fungendo da sostituto della guerra), ma valevole anche oggi. Il dono non è dunque un atto disinteressato, ma interessato: l’interesse risiede nella costruzione di una relazione autentica tra persone, né opportunistica (come nel caso del dono strumentale), né di potere (come nel caso del dono rivalistico delle società arcaiche, ove si compete in generosità per affermare il proprio primato nella comunità). L’interesse del dono risiede nel costruire la fraternità,come evidenziato dall’Enciclica (vedi n.34). Il dono non è nemmeno un atto isolato e discontinuo. Se concepito nell’orizzonte della reciprocità si scompone di tre momenti (dare, ricevere, ricambiare) differiti nel tempo. Il dono è anche influenzato dal tempo. Si situa infatti in una “storia” tra persone ed ha memoria del rapporto: esso riflette quindi, oltre al valore di scambio e di uso, il valore di legame (che dipende dalla durata e dalla qualità dei rapporti). Ma il dono ha anche un valore simbolico: è il simbolo della relazione che è alla sue radici.rn

E` proprio la concezione relazionale del dono che è stata quella più ostracizzata dalla modernità per diversi motivi. La modernità e l’economia contemporanea hanno assunto come loro statuto costitutivo l’individualismo metodologico che non può certamente contemplare il dono nel suo orizzonte di senso, essendo il dono la quintessenza di un rapporto sociale. La modernità, non potendo giustificare il dono nell’ottica egemone dell’interesse individuale, lo ha così relegato alla sfera dell’affettività (in una dimensione privata, non più sociale, e quindi meno visibile). Il dono si trasforma così in un atto discrezionale di buon cuore (filantropia) che non costruisce relazione sociale (conservatorismo compassionevole).

Le conseguenze teoriche dell’occultamento del dono possono schematicamente riassumersi nel fatto che lo studio del dono o non è stato affatto contemplato nell’orizzonte dell’economia (che ha così peccato di riduzionismo) o è stato concepito come eccezione del mercato (settore non profit). Le conseguenze pratiche sono consistite nella insostenibilità sociale ed ambientale dei processi di sviluppo. Gli scopritori dell’economia civile (Prof.S.Zamagni, Prof.L.Bruni, Prof.P.Porta), dei beni relazionali (Prof..B.Gui), gli studiosi dell’ Economia di comunione (Prof.L.Bruni) o del Commercio equo e solidale (Prof.L.Becchetti) ci hanno invece fatto capire magistralmente che lo spirito del dono opera “anche all’interno dell’attività economica e non soltanto fuori di essa o dopo di essa” (vedi Enciclica n.36)

La riscoperta del dono è importante sotto vari profili. Dal punto di vista sociologico il dono rappresenta il terzo paradigma di spiegazione della nascita e del funzionamento delle società umane, alternativo sia all’individualismo metodologico che all’olismo. L’individualismo sostiene che l’individuo precede la società e ne impedisce il coagularsi dato che ognuno persegue solo il proprio interesse personale. L’olismo sostiene che la società pre-esiste all’individuo e addirittura lo metabolizza nel suo granitico complesso di tradizioni, regole, funzioni prestabilite. Il dono invece crea legame sociale attraverso l’interazione degli individui, ma sempre in un clima di libertà e senza annullare le loro identità.

Dal punto di vista antropologico il dono consente di prospettare un modello di uomo diverso dall’homo oeconomicus (agente solo razionale, calcolatore, egoista, sempre coerente con se stesso) e fornisce motivazioni più complesse all’agire umano, che non si risolvono solo nel perseguimento dell’interesse individuale.

Dal punto di vista economico il dono permette di affermare la poligamia delle forme di regolazione (scambio di mercato-reciprocità/dono-redistribuzione) rispetto alla monogamia di mercato-Stato; dilata le concezioni di economia (pubblica, di mercato: privata e civile), amplia la concezione di beni (privati, pubblici, relazionali) e di valore (di scambio, d’uso, di legame, simbolico), di impresa (privata, pubblica, non profit), di finalismo aziendale (non solo profitto, ma responsabilità sociale dell’agire aziendale) (vedi l’Enciclica al n.37).

Dal punto di vista comunitario il dono consente di perseguire meglio il bene comune, grazie al virtuoso circuito tra dono e bene comune su cui si edifica la città (vedi Enciclica n.6).

Anche dal punto di vista individuale il dono è importante perché esso corrisponde al nostro bisogno di amare e essere amati che è più forte del bisogno di acquisire ed accumulare cose. L’uomo è in primo luogo un essere relazionale, non un essere di produzione/consumo. Il dono soddisfa il bisogno umano di individuazione, consentendo di rafforzare la propria identità (dato che il dono incorpora lo spirito del donatore), ma al contempo si basa sul riconoscimento dell’Altro (dato che il dono deve tenere conto delle sue preferenze), privilegiando l’orizzonte dell’essere e non dell’avere.

Il dono appaga, nel momento in cui lo si riceve, anche il bisogno di essere riconosciuti dagli altri che è una necessità insopprimibile del genere umano. Il dono contribuisce a migliorare la qualità della vita, dato il legame dono/felicità. La felicità si fonda su beni relazionali (amore, amicizia, partecipazione attiva alla vita comunitaria e politica). Il dono nel costituire/rinvigorire il legame sociale contribuisce quindi anche alla felicità umana. Inoltre fare doni, nel caso dei regali non convenzionali che sono fatti per dovere in omaggio alle tradizioni, alle regole, alle funzioni di una società, rende di solito felici, dato che il dono corrisponde al proprio bene ed al bene dell’Altro.

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