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Vorrei proporre una lettura del concetto di giustizia in Antonio Rosmini che può aiutare a sistematizzare il concetto complesso di giustizia nella Caritas in veritate. Il modo cristiano di tematizzare la giustizia e la carità, per Rosmini, parte sempre dall’individuo, dalla persona: i beni sono della persona e costituiscono i suoi «oggett[i] de’ diritti». Perciò Rosmini definisce la persona il «diritto umano sussistente». Questi beni delineano i “diritti naturali ed inalienabili” della persona e costituiscono quindi il bene comune della società: la società ha il compito di regolare la convivenza in modo tale che l’individuo possa realizzare il suo bene della persona.

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Rosmini non intende un bene soggettivo o arbitrario, ma la dimensione morale della sua libertà individuale: non siamo noi ad “inventare” la nostra libertà, né tantomeno è lo Stato che potrebbe farlo. Infatti, l’istanza per la determinazione della nostra libertà è il bene della persona. Lo Stato regola «solamente la più utile ed opportuna modalità» dei diritti, ossia il modus sociale che assicura alle persone il conseguimento più favorevole dei loro beni morali. Da tale quadro sistematico derivano innanzitutto tre conseguenze per il concetto di giustizia, che a mio avviso si possono riscontrare tutte e tre nella Caritas in veritate:

(1) La società civile è soltanto una sfera «utile» affinché gli individui possano realizzare i loro beni morali. In essa vige il principio dell’utile, della modalità: infatti, per Rosmini la società civile stessa non ha un’essenza sua propria, ma nella sua funzione sussidiaria essa è la sfera dei mezzi: già San Tommaso ha sottolineato che l’ordinamento giuridico deve essere possibilis ed utilis. Secondo Rosmini, il fine dell’istituzione del governo della società civile è «quello di proteggere la libertà e la concorrenza de’ cittadini ai guadagni e non d’invaderla o di entrare esso stesso in concorrenza»: «[l]a società civile non è dunque una società di beneficenza, ma una società di pura giustizia». La concezione di Rosmini è quindi anti-collettivistica e parte dall’individuo: «[non] può recare alcuna meraviglia che l’individuo non sia più nulla, quando il governo è tutto». Tale giustizia della sfera sociale si realizza quindi in un primo momento nella giustizia commutativa tra le libertà individuali: rapporto aritmetico-catallatico tra le sfere personalistiche di libertà morale, come viene realizzato soprattutto nei rapporti di mercato.

(2) Se questa giustizia commutativa non deve diventare oggetto dei non-rapporti di potere, sacrificata alla dittatura del più forte, essa presuppone un ordinamento politico-giuridico che deve essere strutturato secondo il criterio di giustizia ossia secondo i principi di solidarietà e sussidiarietà, ma appunto non secondo la benevolenza e la carità. Questo perché lo Stato non può realizzare la carità, in quanto è la sfera dei mezzi, del regolamento utile della modalità dei diritti. Infatti, Rosmini si chiede se la carità (beneficienza) possa essere compito dello Stato e nega in linea in principio questa idea: la carità è opera della «spontaneità», mentre il governo agisce tramite «le sue ordinanze, le sue leggi, [che] sono sancite dalla forza» e quindi contrariamente alla «spontaneità». Bisogna sottolineare che Rosmini esplicitamente esclude dalla carità quegli sussidi rivolti al minimo d’esistenza delle persone, in quanto questo problema, appunto, è un problema di diritti fondamentali e non di «mera beneficienza». Tutte le altre opere di carità, però, siano lasciate «alla liberalità de’ singoli cittadini e alle private associazioni». La carità è atto individuale-spontaneo, e solo se questa spontaneità dell’intera nazione si trasmette immediatamente nell’azione del governo, quest’ultimo può eccezionalmente realizzare una giustizia distributiva che vada oltre quella sociale dell’ordinamento politico.

(3) La carità, come visto, rimane affidata alla «spontaneità» degli individui e delle rispettive «associazioni». Lo Stato non deve sostituirsi a questa dimensione individuale o renderla vana. Invece, esso deve favorire quegli spazi della società civile nei quali l’individuo esercita la sua libertà morale e quindi la carità: ossia, secondo Rosmini, nella religione e nella famiglia. Lo Stato, rispetto a queste due «società» che realizzano i «beni» personalistici dell’uomo, è mero «mezzo». E come abbiamo visto, anche la società civile stessa, nei confronti di esse, non ha un’essenza propria, ma persino essa stessa «dee essere, secondo lo spirito della sua istituzione e la sua propria natura, una mera inserviente alle due prime [cioè alla religione e alla famiglia]». In questo punto, la concezione rosminiana è più liberale di quella dell’enciclica, in quanto non concede alla società civile una propria essenza, ma la ricollega a sua volta alla dignità delle persone: la concezione rosminiana è personalistica in tutte le sue conseguenze. Questa è la sussidiarietà per Rosmini: la prevalenza di quei due spazi sociali (che egli chiama «società») che precedono lo Stato e la società civile stessa, e che sono le «società» che realizzano i veri beni (personali e naturali) della persona. La giustizia sociale non può realizzare la carità, ma deve sussidiariamente garantire le due «società» della religione e della famiglia dove si sviluppano «spontaneamente» i valori autentici della carità e del dono.

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