I motivi che facevano prevedere una recrudescenza della crisi russo-ucraina, in congelatore e confinata nelle repubbliche indipendentiste del Donbass dal 2014, erano molti. Che Mosca nel 2022 non accettasse l’allargamento della Nato al “cortile di casa” (l’abbaiare della Nato come è stato definito da Papa Francesco) l’aveva già dimostrato otto anni prima con la rioccupazione della Crimea – sede della sua Flotta del Mar Nero e quindi regione irrinunciabile per operare nel Mediterraneo – dopo la drammatica, sanguinosa e strana rivolta del Maidan che aveva allontanato il Presidente Janukovich da Kiev per sostituirlo con una dirigenza indigesta ai russi (Poroshenko). Prima o poi si arriverà ad un dopoguerra, e certamente sarà molto difficile per noi rallacciare rapporti con un vicino di casa come la Russia che tale rimarrà, ma contro il quale abbiamo operato una chiusura assoluta in una fase della sua storia certamente marcata da suoi errori, ma anche da percezioni sulla propria sicurezza che non possono essere sottovalutate

I motivi che facevano prevedere una recrudescenza della crisi russo-ucraina, in congelatore e confinata nelle repubbliche indipendentiste del Donbass dal 2014, erano molti. Che Mosca nel 2022 non accettasse l’allargamento della Nato al “cortile di casa” (l’abbaiare della Nato come è stato definito da Papa Francesco) l’aveva già dimostrato otto anni prima con la rioccupazione della Crimea – sede della sua Flotta del Mar Nero e quindi regione irrinunciabile per operare nel Mediterraneo – dopo la drammatica, sanguinosa e strana rivolta del Maidan che aveva allontanato il Presidente Janukovich da Kiev per sostituirlo con una dirigenza indigesta ai russi (Poroshenko).

Ma come si è arrivati a questa offensiva russa?

Senza voler andare troppo indietro nel tempo, è necessario risalire almeno alle Primavere Arabe iniziate nel 2011 sotto gli auspici dell’amministrazione Obama. Con esse, venne ribaltato completamente lo status quo nord africano e mediorientale, con la rimozione e l’uccisione di Gheddafi in Libia e con il rovesciamento di Mubarak in Egitto ad opera di Mohammed Morsi, espressione delle fazioni più vicine alla Fratellanza Musulmana. Ci volle un ulteriore colpo di stato per sostituire Morsi con Abdel Fattah el Sisi che ha il merito di avere posto un freno ad un’ulteriore avanzata jihadista nel grande paese africano, col sollievo della importante e ancora cospicua minoranza cristiana copta del paese. Intanto, la “primavera” si incistava in Siria, l’unico paese amico della Russia tra quelli del Medio Oriente, partendo da manifestazioni contro il governo Assad, via via sostituite da una guerra aperta ad opera dell’ISIS e di Al Qaida (Jabat al Nusra poi ribattezzato Hayat Tahrir al Sham).

E’ in Siria che si affaccia la crisi ucraina per la prima volta, quando nel settembre del 2013 al largo della costa siriana si schiera una squadra navale russa uscita dalla base di Sebastopoli in Crimea per impedire che gli Usa intervenissero contro Assad accusato di avere usato i gas. Lo schieramento ottiene i risultati voluti, ma solo 3 mesi dopo, guarda caso, si acuisce la crisi del Maidan che porterà nell’aprile successivo alla secessione della Crimea, sede della stessa flotta russa protagonista dell’attacco mancato a Damasco, ed al suo rientro sotto la sovranità russa.

Insomma, Usa e Russia si dimostrano in Medio Oriente in rotta di collisione per molte ragioni, tra le quali certamente l’insoddisfazione statunitense per la dipendenza dell’Europa dai rifornimenti energetici dalla Russia, ma anche ragioni che potremmo definire esistenziali; il riferimento è alla natura “europea” ed al tempo stesso “asiatica” della Russia che le consentirebbe un ruolo ritenuto pericoloso per chi invece ha una vocazione navale ed extracontinentale, con riferimento alle potenze navali ed anglosassoni della cosiddetta Five Eyes Community (USA, UK, Canada, Australia e Nuova Zelanda). Che anche a questo fattore sia da addebitare la Brexit del 2020 operata da Londra è tutt’altro che improbabile.

Per venire al dunque, in estrema sintesi col ritorno in sella dei democratici Usa all’inizio del 2021, Putin percepisce subito che l’atteggiamento americano del quadriennio di Trump è roba del passato e il clima di mutua tolleranza è finito. Lo si capisce in ripetute circostanze, che inducono il capo del Cremlino, non ancora promosso al rango di Cattivo Assoluto da abbattere, a pretendere, a partire dall’incontro tra i due leaders a Ginevra il 16 giugno 2021, garanzie ufficiali dagli Stati Uniti che escludano un possibile allargamento della Nato in Ucraina che porterebbe il dispositivo militare atlantico ad un tiro di schioppo da Mosca. La mancata risposta a questa richiesta formale, porta così, alla fine del 2021, la Russia ad effettuare uno schieramento di forze terrestri lungo il confine dell’Ucraina, con lo scopo dichiarato di dimostrare la sua determinazione.

Arriviamo così all’inizio delle ostilità a febbraio 2022. Da un punto di vista puramente tecnico, c’è da considerare che si è trattato da subito di una guerra completamente diversa dalle guerre alle quali ci ha abituato il passato recente quando gli eserciti occidentali si sono confrontati soprattutto con milizie e bande irregolari, i cosiddetti terroristi nel contesto della Global War On Terror dichiarata dopo l’11 settembre da George W. Bush.

Si tratta, infatti, di una guerra tra due eserciti moderni che utilizzano mezzi, dottrina e procedure convenzionali.

Ciò premesso, merita un’osservazione l’entità delle forze messe in campo dalla Russia all’inizio dell’operazione. Si trattava infatti di 160-180 mila uomini, per lo più coscritti convinti di partecipare a poco più di un’esercitazione, sparsi su un fronte lunghissimo dal confine con la Bielorussia a nord di Kiev a Karkiv. Donbass, Mariupol e Kerson.

Proprio questo elemento farebbe escludere a priori la possibilità che nel suo disegno iniziale la Russia si ripromettesse una invasione vera e propria, mentre rende più plausibile il raggiungimento di selezionati obiettivi territoriali, finalizzati a innescare un colpo di Stato che pareggiasse il conto con quello del 2014 ai danni del governo filo russo di Janukovich. L’obiettivo viene però mancato, anche a causa di un evidente inefficienza dell’intelligence russa che dimostra di avere sopravvalutato la forza della componente russofila nei gangli delle istituzioni ucraine.

Fallita questa prima fase che potremmo definire “politica”, e veniamo alla primavera del 2022, Mosca effettua quindi un cambio di gravitazione delle forze, spostandole da nord (area di Kiev) al Donbass e a sud. Con questa fase si rinsalda la presa sugli Oblast di Karkiv, Luhansk, Donetsk, Zaporozhia e Kerson ma sempre con forze insufficienti per una guerra aperta come sta diventando l’Operazione Militare Speciale.

Questa insufficienza di forze consente agli Ucraini, che godono di cospicui aiuti militari dell’Occidente, di sviluppare una controffensiva efficace nell’Oblast di Karkiv, riassumendone il controllo, nel settembre 2022, mentre Mosca passa alla difensiva e dichiara una mobilitazione parziale di 300 mila uomini per sopperire alle carenze fino ad ora evidenziate dal cambiamento di scenario.

Contemporaneamente Putin inizia una serie di ristrutturazioni ordinative in campo russo al fine di realizzare uno strumento militare idoneo ad una guerra lunga e onerosa. Viene costituito un Comando unico dell’operazione con un nuovo Comandante in capo, Surovikin, che decide di accorciare la linea del fronte, abbandonando la città di Kerson e la sponda destra del Dnepr; contemporaneamente, la Russia passa ad una fase decisamente offensiva nel Donbass superando la prima linea ucraina che da Lysishank porta a Popasna, grazie alla superiorità del proprio strumento corazzato e di artiglieria. Inizia così una fase di lenta erosione delle difese ucraine mediante combattimenti sanguinosi nei quali entrambe le parti subiscono moltissime perdite.

E così arriviamo all’inizio di questo 2023, con i russi che sempre nel Donbass sembrano sul punto di superare una seconda linea fortificata ucraina (da Siversk a Bakmuth), minacciando quindi di imporre a Kiev l’abbandono dell’oblast di Donetsk ritirandosi su una linea all’altezza di Kromatorsk.

Di fronte alle forti perdite ucraine, tra morti, feriti, prigionieri e disertori, che fanno temere un crollo improvviso del fronte, Zelensky aumenta per questo la pressione sui governi europei, segnatamente la Germania e la Francia, per ricostituire con carri armati occidentali la propria componente corazzata decisamente intaccata dall’azione martellante russa. I risultati non si fanno attendere e sia Polonia, che Germania, Francia, Uk e Stati Uniti dichiarano la loro disponibilità a cedere carri armati di ultima generazione (MBT – Main Battle Tank) di varie tipologie, provocando le piccate rimostranze della Russia.

Questo, in estrema sintesi, è il punto di situazione attuale. A prescindere da quello che potrà riservarci il futuro, se un’offensiva russa nel Donbass o una controffensiva ucraina, quello che si può osservare è il fallimento dell’Unione Europea nel suo compito principale, quello di assicurare la pace nel continente. L’UE, infatti, non ha mai avuto alcun ruolo negoziale, limitandosi per lo più ad avallare le richieste Nato per un sempre maggiore coinvolgimento nella guerra a fianco di uno dei due belligeranti, entrambi paesi europei. Infatti, se uno spazio negoziale ancora sussiste lo si deve esclusivamente alla Turchia, paese Nato per eccellenza, ma extra europeo, mosso da interessi nazionali che sa anteporre a quelli dell’alleanza.

Tutto questo non può rassicurarci: infatti, prima o poi si arriverà ad un dopoguerra, e certamente sarà molto difficile per noi rallacciare rapporti con un vicino di casa come la Russia che tale rimarrà, ma contro il quale abbiamo operato una chiusura assoluta in una fase della sua storia certamente marcata da suoi errori, ma anche da percezioni sulla propria sicurezza che non possono essere sottovalutate.

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