L’obiettivo dichiarato di questo accordo é soprattutto l’abbattimento di quei vincoli non rappresentati da dazi, ma da regole e criteri che ogni nazione o comunità fissa per orientare la concorrenza su come, che cosa e a quale fine deve realizzarsi, a salvaguardia dei cittadini e della società. Viene da pensare che l’unico criterio e norma sulla quale impostare la concorrenza la facciano solo i soldi e non un insieme di fattori volti a una reale crescita individuale e collettiva, veramente globale.

Ogni due settimane nel mondo c’è un terrorista che compie una strage almeno di proporzioni pari a quelle delle Torri gemelle. Questo terrorista si chiama amianto. Di questi reiterati omicidi si parla poco, e l’amianto continua a far parte della produzione e del commercio internazionale, con Cina e Canada tra i protagonisti assoluti; Canada col quale l’Unione Europea ha appena siglato un accordo (CETA) apripista di quello in preparazione con gli Stati Uniti. Gli USA pur non essendo su questa linea hanno leggi non sufficientemente punitive (e concedono lauree ad honorem a personaggi come Stephan Schmidheiny, magnate dell’Eternit) e l’Europa spesso mostra aperture all’amianto bianco. Senza contare che anche nel nostro Paese dove le norme sono più rigide recentemente il Tribunale di Torino ha scoperto che tranquillamente abbiamo importato in un biennio oltre 1000 tonnellate di amianto dall’India.

Questi dati, insieme ad altri, devono far riflettere su cosa rischia di essere il mercato globale. Certamente commercio e rapporti economici tra continenti possono essere motore di sviluppo e occupazione, ma la strage dimenticata dell’amianto, insieme ad altri ritardi e contraddizioni sui diritti dei lavoratori e sulla salute dei cittadini, ci rammentano che sfugge spesso alla politica una amara quanto impellente consapevolezza: oggi il commercio e l’economia globale, anche a scapito della serietà e dell’impegno di migliaia di aziende, si muovono sostanzialmente ancora in un far west, in cui il diritto latita ampiamente, come quei westerner nei quali lo sceriffo deve spesso barricarsi nel proprio ufficio per difendere la legge.

Ecco perché un quanto meno poco trasparente divenire di un’accordo tra Stati Uniti e Unione Europea, denominato TTIP (Transatlantic trade and investment partnership) lascia perplessi, per nulla accompagnato da una rinnovata volontà politica bilaterale di crescita dei diritti e delle tutele dei lavoratori e dei consumatori, piuttosto che della sostenibilità ambientale.

A pesare é innazitutto la segretezza delle trattative e una loro conduzione che di fatto lasciano in secondo piano parlamenti e istituzioni democratiche, se non per chiamarle in causa solo a giochi fatti. Sorgono subito domande che non possono che destare perplessità: chi effetivamente detta gli indirizzi e le motivazioni di fondo e con quale neutralità e imparzialità rispetto ai molti interessi di parte? E se, come dicono i fautori di questo accordo, non potranno che scorrere torrenti di occupazione e benessere per tutti, perché tutta questa riservatezza?

La nostra contrarietà é innanzitutto a un processo nel quale viene resa impari la possibilità di conoscere e prendere parola a testimonianza che una delle cause prime della crisi, l’esplosione delle diseguaglianze, è non solo un fatto economico, ma anche, se non addiritura prima, un fatto politico: speravamo di esserci lasciati alle spalle esperienze politiche in cui, come nella Fattoria degli animali di Orwell, tutti siamo uguali, ma qualcuno é più uguale degli altri. Questa tendenza al ridurre la partecipazione democratica al solo momento elettorale lasciando nelle mani di pochi la definizione delle scelte, mina quel modello sociale europeo che ha molto da dire per rintracciare una uscita dal tunnel di questa crisi.

Nel merito poi di quanto é dato conoscere dell’accordo a ciò si accompagnerebbe anche la possibilità per le multinazionali di imporre per diritto le proprie ragioni di fronte a possibili limiti e scelte delle istituzioni nazionali e locali. Per esempio non sarebbe improbabile vedere trascinate in tribunale le comunità che per le proprie mense scolastiche scelgono prodotti bio o del proprio territorio, seguendo una logica educativa e di promozione dello sviluppo locale. Il tutto per non aver riempito di ormoni e ogm a basso costo la crescita dei nostri figli. Stessa cosa potrebbe succedere per esempio a favore del petrolio, e a sfavore dell’energia verde, in barba alle sempre più drammatiche preoccupazioni sui cambiamenti climatici.

Desta preoccupazione il fatto che si possa soprattutto puntare a una concorrenza che mette a rischio i criteri di qualità della produzione di beni e servizi, nonché della qualità della condizione dei lavoratori, a favore invece dei costi più bassi e senza scrupoli, che sovente soprattutto nei servizi non rappresentano ciò che è vantaggioso anche economicamente per la collettività, ma solo per chi guarda al solo immediato interesse privato. Tutto ciò mentre proprio una economia che cerca nell’aumento della qualità il proprio valore aggiunto, e quindi nell’aiutare a spendere meglio i consumatori e la spesa pubblica, viene indicata da più pari come esempio per creare ancora sviluppo, oltre a rappresentare spesso un fattore vincente del nostro Made in Italy.

Il tutto perché obiettivo dichiarato di questo accordo é soprattutto l’abbattimento di quei vincoli non rappresentati da dazi, ma da regole e criteri che ogni nazione o comunità fissa per orientare la concorrenza su come, che cosa e a quale fine deve realizzarsi, a salvaguardia dei cittadini e dell’intera società. Insomma fateci vedere chiaro, ma da quel che si vede veramente viene da pensare che l’unico criterio e l’unica norma sulla quale impostare la concorrenza la facciano solo i soldi, e chi ne posside di più, e non un insieme di fattori volti a una reale crescita individuale e collettiva, questa sì veramente globale.

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