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Proponiamo l’intervista a Luigi Alici realizzata da Anna Piuzzi il 25 ottobre 2014 nell’ambito delle lezioni promosse dalla SPES e pubblicata su "la Vita cattolica" di Udine.   

La politica «non può disinteressarsi della qualità delle relazioni tra le persone, perché il bene che accomuna essenzialmente non è solo la protezione di alcuni beni naturali di uso collettivo, è la protezione del tessuto civile che le istituzioni devono servire». Così Luigi Alici, docente di Filosofia Morale all’Università di Macerata, intervistato da «la Vita Cattolica» a margine della prima lezione della Spes, la Scuola diocesana di Politica ed Etica sociale, sabato 25 ottobre 2014. Parole chiare, di una semplicità disarmante, ma che una società dalle relazioni sfilacciate sembra aver perso di vista.

Professor Alici, lei oggi ha iniziato la sua lezione su «Persona e bene comune» mettendo in guardia da un rischio, quello del passaggio dall’antropocentrismo a un pericoloso biocentrismo.

“Una cultura che richiama l’attenzione sul valore della natura e un impegno politico che se ne faccia carico sono certamente importanti. Spesso, infatti, la minaccia alla biosfera deriva dalle disattenzioni della politica, quindi è giusto che l’uomo ne tenga conto. Sappiamo però che nel dibattito intorno all’ecologia si è progressivamente approfondita la differenza tra ecologia in senso superficiale – che nasce come una scienza e che si fa carico degli ecosistemi -, e la biologia in senso profondo che corre il rischio di diventare un’ideologia quando pretende che la natura non venga guardata con gli occhi dell’uomo, ma che, al contrario, si debba guardare all’uomo con gli occhi della natura”.

Come l’essere cristiani può correggere questa rotta?

“Il cristiano crede che l’essere umano è l’unico voluto da Dio per sé stesso. La sfida si pone allora in questi termini: in quale misura il primato della persona deve essere salvaguardato da un credente in un modo non antropocentrico, non dominativo? Certamente il farsi carico del futuro della vita per l’uomo significa farsi carico anche della vita biologica, anche del futuro della vita che ancora non è nata, ma certamente appartiene alla tradizione dell’etica cristiana il saper fare una gerarchia di valori. Questo comporta delle conseguenze molto importanti, cioè la possibilità di chiedere che la politica estenda sempre di più la sua attenzione alla biosfera, senza però assumere un agnosticismo a livello antropologico, mantenendo quindi l’idea della dignità della natura umana”.

Lei ha ricordato che la «scommessa cristiana sulla persona» ha radici nella cultura greca, in quella polis che Aristotele vedeva fondata sull’amicizia. Questo impone alla politica di essere a servizio non solo della persona, ma anche delle relazioni. Questo come si traduce in concreto?

“È interessante fare riferimento, pur in maniera critica, alla cultura greca. Un riferimento che però ci dice che anche una cultura pagana che non aveva ancora conosciuto il messaggio cristiano era in grado di riconoscere la reciprocità come la forma più alta dell’umano. Questo può aiutare a capire che l’idea della reciprocità – come valore fondamentale che la politica deve promuovere – non è necessariamente un’idea confessionale. Il valore aggiunto nella prospettiva cristiana è che la radice della reciprocità tra le persone è trinitaria. Ed è una radice che ci porta a riconoscere che la comunione è all’origine della storia, della creazione e della salvezza. Questo messaggio, nella testimonianza e nell’impegno politico, deve essere tradotto laicamente, senza tradirlo. Ciò significa che la politica non può disinteressarsi della qualità delle relazioni tra le persone, perché il bene che accomuna essenzialmente non è solo la tutela di alcuni beni naturali di uso collettivo, è la protezione del tessuto civile che le istituzioni devono servire e che non hanno il compito di produrre in proprio, ma che trovano nella storia e devono valorizzare”.

Come si cerca il bene comune e si rimotiva la politica nell’epoca del multiculturalismo?

“La politica non può nascondersi dietro a un dito o assumere un atteggiamento relativista, limitandosi a costruire un contenitore che non esprima un giudizio sulle culture diverse. In questo momento, in un’epoca in cui il pluralismo – che è sempre legittimo – rischia di diventare relativismo (patologia del pluralismo), la politica non può illudersi di fare dei passi indietro assumendo un atteggiamento di neutralità: la politica, infatti, deve essere imparziale, ma non può essere neutrale. Il problema che quindi si pone è di mantenere una rete minimale di “bene comune” che lasci dei margini di relativo pluralismo. L’etica pubblica, infatti, non può “cannibalizzare” l’etica privata, ma non può nemmeno ridursi a essere il contenitore delle etiche private. Allora il problema è rimotivare la politica alla promozione del bene comune. Se la politica non fa questo si vive a rimorchio dell’economia e il triangolo di etica, politica ed economia viene capovolto: l’economia scrive l’agenda, la politica la esegue e l’etica diventa una sorta di moralismo di retro-guardia al quale si chiede di ratificare delle scelte che sono già avvenute”.

Lei ha accennato all’implosione dell’impero romano. Anche il nostro Occidente vive una crisi di identità e valori, come si evita il rischio di un’implosione?
“Non bisogna essere ingenui nei paralleli storici, ma certamente fra l’agonia dell’impero romano e lo smarrimento dell’Occidente – che vive con angoscia queste fiammate terroristiche e non ha da opporre dei valori condivisi – ci sono alcune analogie profonde. Sono dei fenomeni al limite della paranoia immaginare che alcuni giovani occidentali si convertano all’Isis, che certamente non merita il titolo di regime religioso, ma di regime terroristico che cerca una copertura diabolica nel religioso. Viene però anche da chiedersi, quali sono i valori delle società occidentali avanzate ai quali un giovane oggi si può convertire? Se l’Occidente assume un atteggiamento arreso davanti al nichilismo non può poi innervosirsi quando i giovani si convertono a delle forme deliranti di terrorismo perché la desertificazione dei simboli religiosi che la società occidentale persegue può determinare questi fenomeni. Allora gli spazi della convivenza non possono essere spazi vuoti di etica, ma spazi eticamente qualificati. Solo delle dimensioni sociali e politiche eticamente qualificate possono giustificare un attaccamento delle giovani generazioni. Questo è il grande problema dell’Occidente, se si illude di affidarsi solo alla tecnologia, senza nessun valore da proporre come promozione dell’umano, non può lamentarsi di questo fenomeno. L’impero romano, dice Agostino nel “De Civitate Dei”, crolla per implosione perché non si credeva più in niente all’interno di quel sistema e questo è un elemento che ci deve interrogare”.

Si è appena chiuso il Sinodo straordinario sulla famiglia, è anche questo un contribuire al Bene comune da parte della Chiesa. I media però si sono focalizzati solo su alcuni questioni come la comunione ai divorziati, eppure si tratta di un cammino ben più articolato.
“Credo che il messaggio più grande stia proprio nella scelta di grande saggezza pastorale di Papa Francesco di articolare il Sinodo in due tempi, un Sinodo straordinario e uno ordinario. Questo dà veramente il senso che la comunità cammina quando crede nel discernimento comunitario e quando ne fa un luogo di elaborazione e anche di misericordia, intesa come attenzione che prende sul serio i bisogni del nostro tempo, senza rinunciare a giudicarli criticamente, imponendo però alla comunità cristiana di ripensarsi in uno scenario che assomiglia molto a un ospedale da campo, come dice Papa Francesco. Quindi certamente le scelte pastorali matureranno in maniera sinodale e ci sono delle premesse interessanti, ma prima ancora delle scelte lo stile della sinodalità è una risposta a una società che è incapace di ascoltarsi, di dialogare, di elaborare”.
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