Il suo ultimo libro La nazione cattolica. Chiesa e dittatura nell’Argentina di Bergoglio indaga l’intreccio tra politica e religione nella storia argentina. La concezione del popolo di Papa Francesco segna, a suo avviso una discontinuità?
Per nulla. Penso al contrario che l’idea di popolo che ritroviamo in Bergoglio sia oggi e sia sempre stata in passato coerente con quella prevalsa nella storia del cattolicesimo argentino. E’ un’idea di popolo come comunità organica, un organismo vivente dotato di una sorta di anima collettiva, ed è un’idea culturale di popolo, considerato un corpo mistico unito dalla fede tramandata dalla storia. Poiché però in Bergoglio come nella Chiesa argentina tale idea di popolo si erige a custode della identità di una specifica nazione, a patrimonio ideale cui le leggi positive e il dettato costituzionale dovrebbero adeguarsi per non perdere legittimità, ne è spesso derivato un cortocircuito tra sfera politica e sfera spirituale. Il popolo di Dio dei cattolici, insomma, ha spesso fagocitato il popolo sovrano della Costituzione.
A loro volta, i maggiori attori politici e sociali del campo nazional popolare argentino – il peronismo e le sue varie anime, i militari erettivi a guardiani della cattolicità nazionale, i sindacalisti custodi della “giustizia sociale”, il clero radicale sempre alla ricerca di un nuovo “ordine cristiano” – hanno costantemente battagliato tra loro per accreditarsi il ruolo di puri ed esclusivi custodi della nazione cattolica. Quel che ne è conseguito è costato caro: una perenne guerra di religione sull’adesione o meno dell’Argentina reale ai precetti di tale Argentina ideale; il diffuso sprezzo per le istituzioni del costituzionalismo liberale, additate a intralcio e corruzione dell’unità spirituale della nazione; la perenne politicizzazione della religione è stata l’altra faccia della pretesa religiosa di essere fondamento della politica; l’affermazione della logica manichea che separa il popolo virtuoso e cattolico da chi ne esuli, cominciando dal ceto medio che Bergoglio definì un tempo “ceto coloniale”; l’incapacità della politica di legittimare la sua funzione in una sfera autonoma e autorevole.
Non dev’essere un caso che taluni di coloro che meglio compresero la natura di tale dramma tuttora irrisolto fossero religiosi essi stessi; religiosi di quel campo cattolico liberale che in Argentina è stato perennemente in minoranza, spesso perseguitato dalle gerarchie e di cui Bergoglio è agli antipodi. Furono essi a denunciare l’abusiva confusione tra identità nazionale e comunità politica e il “comunitarismo antipersonale” su cui poggiava tale confusione, ossia la tipica idea organicista in base alla quale l’individuo è sottomesso al Tutto, in cui “la persona umana altro non sarebbe che il pezzo di un organismo”: non era la premessa di ogni totalitarismo? Eppure proprio tale concezione organica del mondo aveva inibito la maturazione in Argentina di una solida cultura pluralista e di un forte Stato di diritto.
Da molti anni lei studia il fenomeno del populismo in America Latina. Più recentemente, nel suo libro Il populismo allarga l’orizzonte della sua analisi. Oggi in che cosa consiste il populismo? Perché è stato ed è così diffuso? E perché lo è nel mondo latino più che altrove?
Andrebbe sempre ricordato che il populismo è un concetto utile a capire un fenomeno storico e non il fenomeno storico stesso. Non esiste, cioè, in natura un fenomeno chiamato populismo, ma tanti fenomeni diversi tra loro accomunati da alcuni valori e idee ricorrenti, che chiamiamo per l’appunto il nucleo ideale del populismo. Ridotto all’osso, tale nucleo si fonda sull’idea che una determinata comunità rappresenti “un popolo” in senso identitario, storico, magari su basi etniche, o religiose, o nazionaliste, o perché riconducibile a una particolare classe sociale, a una virtù intrinseca, poniamo l’onestà, vera o presunta. Tale idea “naturale” di popolo entra in collisione col popolo “artificiale” creato dal patto politico delle Costituzioni quando i canali rappresentativi predisposti da queste ultime non compiono più in modo adeguato la loro funzione. Poiché oggi è comprensibile che il sommarsi di un’enorme concorrenza di cause – rivoluzione tecnologica e grandi migrazioni, disoccupazione cronica e scarsi ritmi di crescita economica, vita iperdinamica ma ridotta mobilità sociale, così via – mini a fondo l’efficacia dei tradizionali canali rappresentativi, come partiti e associazioni corporative, ed eroda in fretta il senso di appartenenza nazionale o locale, non c’è da stupirsi che l’idea di popolo populista, contrapposta all’idea liberale di popolo sovrano, risorga con forza. Anzi, date le circostanze c’è quasi da stupirsi che non lo faccia ancor più: vale la pena riflettervi, perché ciò è indizio di una maggiore resistenza delle nostre istituzioni democratiche di quanto siamo soliti disposti ad ammettere.
Detto ciò, poiché i populismi sono reazioni identitarie alla crisi della liberal democrazia in nome di un popolo mitico, è ovvio siano diversi nei diversi contesti storici. Il populismo anglosassone, per dire, non è antiliberale, semmai iper-liberale: vede nell’eccesso di presenza statale il nemico delle libertà individuali che ritiene incarni l’identità del suo popolo. Viceversa, il populismo di paesi cattolici come Italia e Spagna ha afflato comunitario e antiliberale, evocativo di antichi organicismi cristiani; e ancor più quello tedesco, erede di vecchie utopie romantiche sul volk.
Che dire dei populismi dell’Europa orientale? Paesi dove la democrazia liberale è pittura fresca, invocano spesso identità etniche e religiose. Ovvio che in piccole dosi e se metabolizzata dal sistema istituzionale democratico liberale, la sfida populista può perfino avere effetti virtuosi sulla rigenerazione del sistema, sottraendolo alla autoriproduzione delle oligarchie politiche in cui spesso cade e agevolando il ricambio delle élite. Tale sfida pone però al tempo stesso enormi sfide alle istituzioni politiche stesse e le sottopone a una costante delegittimazione in nome dell’immaginario manicheo del populismo, insofferente verso qualsiasi ostacolo si frapponga tra il suo popolo e la sua presunta missione storica. Laddove perciò le istituzioni democratiche non sono abbastanza solide e non contano su sufficiente radicamento popolare, è facile che il populismo le svuoti di significato o passi loro sopra introducendo nella vita pubblica una radicale dialettica popolo/antipopolo che le debiliterà ancora di più, trasformando la competizione politica in guerra di religione.
Se, infine, il populismo è così persistente e lo è in modo particolare nel mondo latino, ci sono spiegazioni plausibili. E’ persistente poiché offre beni vitali che la democrazia liberale non è sempre in grado di offrire: senso di identità, di appartenenza, una sorta di epica della comunità, un senso di protezione e destino collettivi. Ovvio che sono beni illusori e che il populismo stesso si rivela perlopiù transitorio: promette identità e comunità unanimi ma alla fine dovrà cedere dinanzi alla crescita imperterrita dell’eterogeneità. Eppure la promessa populista ne spiega la popolarità. In quanto alla sua fortuna nel mondo latino, mi limito a un’osservazione: sia i fondamenti filosofici e politici sia le premesse socio-economiche della democrazia liberale e della economia capitalista non nacquero in forma endogena nel mondo latino: vi furono via via trapiantati o acquisiti prendendo spunto dalla civiltà in cui erano sorti, quella protestante anglosassone.
Ciò aiuta a capire la difficoltà ad acclimatarsi e ancor più a estendere lungo l’intera scala sociale il suo sistema di valori. Contro di essi, invocando l’idea organica di popolo per secoli associata alla civiltà cattolica del mondo latino, la reazione populista ha spesso trovato buon gioco nel contrapporre al suo ethos individualista un ideale comunitario capace di ristabilire l’unità originaria spezzata dalle idee liberali e dall’economia capitalista: fascismo, salazarismo, franchismo, varguismo, peronismo e via di seguito furono tutte forme assunte in passato da tale reazione populista antiliberale, che ancora attinge a tale nostalgia identitaria di un passato in cui il popolo era unito e coeso. La differenza più importante di oggi è che le istituzioni democratiche hanno anche nel mondo latino radici più profonde che in passato e il populismo è costretto a vivere dentro di esse invece che contro di esse. Ciò ne attenua solitamente il potenziale eversivo.
A suo avviso gli italiani si sentono un popolo? Che valutazione dà del rapporto tra popolo italiano e democrazia? Il populismo è l’unica via possibile per rispondere alle esigenze del popolo, per superare lo scollamento tra politica e cittadini?
L’immaginario populista è un immaginario latente: in condizioni di crisi di rappresentatività, come quelle vigenti dalla fine del sistema della guerra fredda in qua, si manifesta con maggiore vigore; in caso contrario si esprime attraverso i canali esistenti. Se dovessi dire quanto gli italiani si sentano un popolo in senso democratico liberale, direi molto poco. Il popolo sovrano del costituzionalismo liberale è sempre stato e rimane in Italia formato da minoranze e soggiace a identità e istituzioni di ben più profondo radicamento emotivo: la famiglia, il territorio, il partito inteso come identità. Assoluta ed escludente. Tuttavia quel che è accaduto in Itala dalla seconda guerra mondiale in qua è stato un fenomeno storico di grande portata di cui non va sottovalutata l’enorme portata. E’ accaduto che due culture di per sé propense a un’idea populista di popolo come quella cattolica e quella comunista abbiano non solo dovuto legittimarsi reciprocamente, ma farlo attraverso i canali del costituzionalismo liberale. Tali canali hanno col tempo sviluppato una loro inerzia, costretto un numero crescente di attori a giocare secondo le loro regole e ampliato la sfera di fedeltà nei loro confronti.
La Costituzione è stata in tal senso una fabbricatrice di popolo sovrano, benché i popoli delle due grandi tradizioni politiche amassero sentirsi più che altro popolo della loro Chiesa, estraneo al popolo della Chiesa altrui. Ora che quelle Chiese non ci sono più, l’Italia paga i limiti di quel processo che per decenni ha funzionato bene: il passaggio dal popolo assoluto e omogeno di quei partiti-Chiese al popolo composto da individui indipendenti cui si chiede l’esercizio consapevole della sovranità politica è un passaggio delicato. In tale passaggio, chi invochi identità più forti e solide, rassicuranti ed epiche, territoriali o morali che siano, cattura facili consensi. Prima che l’illusorietà delle sue promesse non si manifesti.
A tal proposito, non v’è dubbio che la moltiplicazione di appelli ad una idea populista di popolo nel nostro paese da venti anni in qua indica il grande potere evocativo che essa conserva per molti, oltre naturalmente alla crisi dei canali rappresentativi tradizionali. Ma il fatto che finora tutti tali appelli siano stati bene o male metabolizzati dall’ordine costituzionale vigente, capace perciò di smussarne le derive almeno in potenza eversive, è un segnale incoraggiante della tenuta istituzionale del paese. In quanto alle “esigenze del popolo”, la formulazione stessa della domanda indica quanto incosciente e radicato in ognuno di noi sia l’immaginario populista: ciò che infatti presuppone è che esista un popolo così omogeneo da avere, come un organismo vivente, “esigenze” condivise. Problema della democrazia è invece diffondere la consapevolezza che le esigenze sono varie, sono legittime e la politica serve sia a legittimarle sia a stabilire priorità tra di esse. In caso contrario si giunge alla tipica retorica populista che vorrebbe un “popolo” buono e virtuoso tradito da una “élite” viziosa e corrotta. Una immagine che ripulisce qualche coscienza, ma falsificando la realtà, la rende ingovernabile.
Come uscire dalla deriva populista? Quali strade è possibile percorrere per ridare sostanza alle istituzioni democratiche e per rigenerare la democrazia rappresentativa? La società civile – che nella prospettiva populista ha un spazio residuale – che ruolo può giocare?
Non ho, né credo vi siano ricette per “uscire dalla deriva populista”. I fattori che la stimolano non accennano a diminuire, specie l’immigrazione, che tutti li coagula e che rimarrà un dato strutturale delle nostre società per molto tempo ancora, almeno finché i paesi di origine degli immigrati non sapranno a loro volta produrre processi politici ed economici abbastanza virtuosi da richiamare in patria tanti che la hanno abbandonata. In quanto alla “società civile”, è un concetto problematico in nome del quale si può incorrere nei peggiori abusi populistici, per esempio pretendendo di agire in suo nome per rivendicare una specie di superiorità morale nei confronti di chiunque altro. Poiché contro la deriva del populismo non vi sono ricette né scorciatoie, non rimane che adottare nei suoi confronti alcune misure e cautele. Il primo sforzo è di evitarne ogni moralistica demonizzazione, il cui effetto non può essere altro che quello di inasprire l’escalation populista nell’intera comunità politica, espandendo il virus populista da tutti i suoi attori. Se tale sforzo riesce, sarà più facile che si inneschi il secondo necessario step per attutire la sfida populista: la sua istituzionalizzazione, ossia la capacità del sistema di obbligare l’onda populista a rientrare nell’argine istituzionale in cui già agiscono gli altri protagonisti della vita politica e sociale, così da legittimarli invece di eroderlo. Infine servono governi con forte legittimazione elettorale, una classe dirigente capace di indicare obiettivi collettivi al di là del breve termine, un ceto politico capace di essere esempio vivente delle virtù del rule of law. Non è facile, non è nemmeno impossibile.