|

Proponiamo un’intervista al nuovo Assistente nazionale dell Acli Don Giovanni Nicolini, ex direttore Caritas di Bologna. Si definisce come prete “in disparte”, per la sua dedizione alla cura degli emarginati e dei poveri. Originario di Mantova e dossettiano da sempre, don Giovanni è parroco di Sant’Antonio della Dozza e cappellano del Policlinico Sant’Orsola di Bologna.

Nella Bibbia Dio si prende cura dell’uomo e del suo popolo. Nella Genesi Dio affida all’uomo il ruolo di custode della natura e di collaboratore della creazione. Quale insegnamenti possiamo trarre da tutto ciò per quanto riguarda il tema della cura del prossimo?

La cosa notevole è che ci sono tre verbi con i quali Dio consegna all’uomo la creazione. Nel primo racconto della creazione, perché nella Bibbia ci sono due racconti della creazione, Dio usa un termine molto forte, addirittura aggressivo, ovvero che l’uomo deve dominare la natura. Perché la deve dominare? Perché il grande pericolo è l’idolatria e quindi anche la natura è creatura e non ci deve essere una creatura che venga adorata come Dio non essendo Dio. Questo è di estrema attualità, perché noi siamo in una epoca fortemente idolatra. Formalmente non religiosa ma in realtà religiosissima ma di una religione dell’idolo. Il secondo verbo usato è conservare. Tutto quello che in questi ultimi anni e mesi stiamo ricevendo dalla ricerca scientifica è proprio il dramma di una creazione non conservata, perché aggredita, usata, sottoposta alle regole della finanza e dell’economia e non preservata nella sua integrità e bellezza. Il terzo verbo è coltivare e questo è più direttamente legato al termine “cura”. Dio ci ha affidato la creazione perché noi la coltivassimo.

Quale posto ha il tema della cura nella nostra società, che Papa Francesco definisce “società dello scarto”?

La cura nella convivenza umana diventa l’attenzione al mio prossimo. Io non sono un unico né la creazione e la storia sono state fatte per me. Lo sono sicuramente ma lo sono nella misura in cui anch’io, per primo, tengo conto della presenza essenziale del mio prossimo. Questo si potrebbe ricavare già dal fatto che quando Dio ha creato l’uomo ha creato due persone e non una. E con grande attenzione si descrive la creazione della donna. Direi quindi che essenziale per la nostra concezione dell’umanità e del nostro rapporto con il tema della creazione considerare il primato della relazione. Cura vuol dire vivere nella relazione e per la relazione ed è questa relazione che ci giudica e ci salva. Non saremmo qui a parlare e ascoltare se di fatto molti, a partire dai genitori che ci hanno messo al mondo, non si fossero posti in relazione con noi. Siamo tutti dei salvati da questo mistero della relazione.

Perché la nostra società non si prende cura dei giovani e tende a relegare il lavoro di cura solo alle donne?

I giovani non interessano tanto come persone ma esistono in quanto utili per il loro impegno. Tra l’altro in questo momento nel Paese c’è una grande crisi del rapporto giovani e lavoro che hanno l’impressione che più niente e nessuno si interessi di loro, quindi sono costretti ad una specie di vagare per trovare una linea di speranza. Quanto al tema della donna devo fare una osservazione che in certo senso accentua l’importanza del femminile in tutto ciò che riguarda la realtà profonda della crescita delle persone e quindi evidentemente anche dei giovani. Le donne sono in una condizione difficilissima e ingiusta nella nostra società perché sono tutte costrette a fare due lavori; da una parte lavorano per portare in famiglia un sostegno economico ma dall’altra, appena finito questo lavoro e tornano a casa, cominciano l’altro lavoro, peraltro insostituibile. Sempre di più mi sono convinto che anche nel nucleo familiare il cuore di tutto è la donna e noi uomini, saremo anche i capofamiglia, ma la garante e la costruttrice dell’unità, anche nelle differenze, nei conflitti e nelle fatiche provocate dalle età diverse, dalle malattie e dalle devianze, è la donna.

Nella sua esperienza di vita e pastorale da molti anni si prende cura dei poveri e dei bisognosi. Cosa ha imparato da loro?

Per me il rapporto è decisivo perché ho scoperto come in realtà sono loro che si occupano di me e quanto curano la mia crescita umana, culturale, politica e spirituale. E’ proprio con i poveri che ho scoperto come questo rapporto sia sempre di reciprocità, perché altrimenti si ha l’impressione che ci sia sempre qualcuno che è attivo e qualcuno che è passivo, qualcuno che dà e qualcuno che riceve ma è una concezione del tutto superficiale della relazione. Questa è sempre in qualche modo un dare e ricevere.

Lei è un dossettiano e ha avuto modo di conoscere bene don Milani. Il tema della cura che ruolo assume nel pensiero e nel ruolo di queste due figure?

Direi che il rapporto di queste due persone, che per me sono di primaria importanza, è singolarissimo anche se non si sono mai conosciute pur vivendo nella stessa epoca. Dossetti di fatto, attraverso il contatto privilegiato con la scrittura, ha avuto un grande contatto con l’antropologia ebraica. Cristo era un ebreo e non si può entrare nel Nuovo Testamento senza il libro che Dio ha regalato agli ebrei.

Don Milani era un mezzo ebreo. Tra l’altro per una certa pienezza della conoscenza della sua persona mi sono sempre più convinto, soprattutto in questi ultimi mesi, che ci vorrebbe una biografia ebraica di don Lorenzo. Mi è venuto in mente il rapporto con lui, ad esempio, quando scriveva Lettera ad una professoressa, ricordo la sua attenzione quasi ossessiva per la parola. Costringeva persone come me a farsi, in certo modo, anche immediatamente maestri e mentre stavi imparando dovevi anche imparare ad insegnare. Lui ti perseguitava con il problema delle parole, che in alcuni casi non erano esatte o non abbastanza espressive. Intorno al mistero della parola vedo una relazione profondissima tra due persone diverse ma in realtà profondamente nascenti dalla stessa esperienza.

L’ I care di Don Milani racchiude la cura educativa, l’amore, l’interesse per l’altro del priore di Barbiana. Basti pensare a quella frase che felicemente Papa Bergoglio ha evocato nella sua visita a Barbiana quando ha ricordato che per don Lorenzo bisognava smetterla di parlare dei poveri e bisognava cominciare a dare la parola ai poveri. Invece di parlare di loro bisogna arricchirli, costituirli in questa possibilità assoluta della relazione che è la parola.

Alla luce dell’insegnamento evangelico cosa significa prendersi cura delle persone nelle relazioni quotidiane e come è possibile vivere la dimensione della cura nel contesto lavorativo?

Qui ci si può rifare al primo articolo della Costituzione – frutto dell’opera privilegiata di Giuseppe Dossetti e di persone come La Pira, Lazzati, Moro e Fanfani che in quel momento decisivo erano intorno a lui dopo il dramma del regime fascista e della Seconda Guerra mondiale – con cui si è arrivati a definire l’Italia una repubblica fondata sul lavoro. Che cos’è il lavoro? E’ la fatica di ciascuno con la quale, in una società viva, si contribuisce alla vita della società: il guidatore di autobus col suo mestiere, l’artista migliorando la sua opera, il bambino imparando a leggere e a scrivere, il nonno che con la sua ultima fatica si congeda da questo mondo. Questa società è viva perché è fatta dal lavoro di tutti e dalla partecipazione viva e responsabile, dal più piccolo al più grande. Questo è anche il segreto della cura, perché il mio maestro di seconda elementare mi ha insegnato qualcosa a scuola, io facendo lo scout ho insegnato qualcosa, dai maestri che ho prima citato ho appreso molto… Anche il rapporto con la povera gente insegna tante cose e addirittura ti forma.

Il lavoro quindi è soprattutto la possibilità di poter collaborare tutti, a proprio modo, ad un’opera. Il fatto che i giovani siano tenuti lontani dal lavoro è un fatto grave?

Si certo.  Il terzo articolo della Costituzione dice che – e qui sono citati in modo esplicito i lavoratori – la cura è sempre una reciprocità. Questo è il motivo per cui qualche volta discuto in sede di comitato etico dell’ospedale universitario; perché certe volte il malato rischia di essere ridotto a oggetto, anche di esperimento.

Come si può allora trasformare, secondo lei, il rapporto di lavoro?

Sempre attraverso la riscoperta della persona, altrimenti il rischio è che al centro vi sia solo la funzione e la produttività; invece è la persona il valore. Ogni attività che umilia la persona, la ignora o la usa evidentemente provoca un impoverimento drammatico della vicenda umana e della vicenda sociale. Dunque o si cerca sempre non solamente il diritto ma anche l’utilità e la preziosità della persona o si entra fatalmente nel degrado.

Tags:
Ti è piaciuto questo articolo? Condividilo!

FACEBOOK

© 2008 - 2024 | Bene Comune - Logo | Powered by MEDIAERA

Log in with your credentials

Forgot your details?