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E’ importante realizzare interventi che qualifichino e valorizzino il lavoro domestico di cura, rompendo il binomio famiglia datrice di lavoro–lavoratrice immigrata sfruttata. E occorre far emergere tale rapporto dall’informalità delle relazioni privatistiche ripensando il welfare della cura

Il lavoro domestico privato salariato ha assunto una rilevanza significativa negli ultimi venti anni, in concomitanza con lo sviluppo del lavoro di cura presso il domicilio dell’assistito, portando alla luce lo stretto legame tra organizzazione informale dell’assistenza e migrazioni.

Questa via italiana di cura alla persona, questa assistenza “fai dai te”, ha determinato la nascita di un lavoro “di nuova generazione”, svolto prevalentemente da donne straniere, che colma le lacune delle politiche socio-sanitarie.

Sfatato ormai il mito delle badanti quale fenomeno estemporaneo, è utile ragionare su come oggi il lavoro di cura abbia rilevanza rispetto al crocevia di cambiamenti significativi in atto a livello nazionale e mondiale come l’invecchiamento della popolazione; la presenza delle donne nel mondo del lavoro extradomestico; la con-divisione dei compiti all’interno delle mura domestiche; l’esternalizzazione del lavoro di cura con personale retribuito; la redistribuzione del lavoro domestico tra donne ‘indigene’ ed immigrate; la femminilizzazione dei processi migratori legati alla cura e il care drain; la dimensione nazionale e transnazionale delle politiche di welfare; la crisi economica; i tagli e la privatizzazione del Welfare. Tante dunque sono le sfaccettature e le variabili in gioco di questo lavoro spesso sottovalutato e non sempre riconosciuto come tale neppure da chi lo svolge.

All’interno del dibattito politico, sociale ed economico nel nostro Paese, queste tematiche sono affrontate ancora in maniera marginale. Invece più che mai oggi bisognerebbe avviare una seria riflessione sul senso del lavoro di cura, riconoscendone la sempre più progressiva centralità nella nostra società.

Nel nostro caso ci poniamo da sempre la domanda “Chi cura il lavoro di cura?” e, a partire dall’esperienza delle Acli Colf, proviamo a tracciare l’identità delle lavoratrici, il significato che assumono le relazioni nel lavoro di cura e come questo lavoro può acquisire maggiore dignità.

Dal 2000 il settore domestico è stato caratterizzato da un trend crescente seppur a fasi alterne, passando da circa 270mila lavoratori nel 2001 a circa 866mila nel 2016.. Nonostante i passi in avanti in termini di legalità e trasparenza, risulta ancor oggi difficile avere un numero esatto delle lavoratrici e dei lavoratori impiegati nel settore, in quanto le statistiche ufficiali escludono dal computo tutte le situazioni di lavoro nero e sommerso. Si stimano in totale 1milione e 500mila lavoratrici/ori facendo di quello domestico uno dei settori con maggiore impiegati nel nostro Paese.

Vi è una forte caratterizzazione di genere, con circa l’88% di donne, e una prevalenza di stranieri che raggiungono cieca il 75%% del totale degli impiegati, sebbene si registri un aumento degli italiani presenti nel settore, pari al + 1,0% nell’anno 2016, rispetto al 2015. La presenza di stranieri, e in particolare di donne straniere, ha contribuito a costruire la figura dell’assistente familiare, professione progressivamente abbandonata dalle donne italiane, che ha determinato un processo di emersione e di legalità di un settore da sempre invisibile.

Le ragioni della poca considerazione di tale lavoro si possono ritrovare in motivazioni sia culturali che contrattuali, molto intrecciate tra loro.

Andando per punti possiamo rilevare che è un lavoro, dal punto di vista contrattuale, incapace di garantire una stabilità lavorativa di lungo periodo anche quando viene sottoscritto un contratto di lavoro a tempo indeterminato. Esso, infatti, può cessare per varie ragioni, ad esempio per la morte della persona assistita. Lasciando di fatto la lavoratrice senza lavoro e, nei casi in cui l’assistenza preveda la convivenza con l’assistito, anche senza alloggio.

Ogni nuovo rapporto di lavoro implica ripartire da zero, senza poter godere di una stabilità contrattuale giacchè tutti i termini contrattuali devono essere ridiscussi, rinegoziati, così come le mansioni e l’impegno richiesto. Di fatto è assente una progressione di carriera, presente invece in altri ambiti lavorativi.

Il lavoro di cura prevede inoltre, nella maggior parte dei casi, una presenza costante sul luogo di lavoro, compiti di cura impegnativi, una riduzione o ridimensionamento della vita privata, una sorta di isolamento forzato. Da parte delle lavoratrici straniere, lontano dalle proprie famiglie, vi è maggiore disponibilità a lavorare in regime di convivenza, spesso con significativi costi a livello umano ed emotivo, che a volte possono essere pesanti e ripercuotersi anche sulla salute stessa della lavoratrice, non di rado soggetta forme di depressione, come il bourn out.

Se è vero che il lavoro domestico e di cura, tanto per le straniere quanto per le italiane, almeno nella fase iniziale, è percepito come un’occasione utile e temporanea, “da cui si uscirà” (per integrare il bilancio familiare e per conciliare l’occupazione extradomestica con le proprie esigenze personali), per le donne straniere è indubbiamente un modo per mantenere se stesse, la famiglia rimasta a casa, e per risparmiare in vista di possibili investimenti, come l’acquisto della casa nel paese di origine.

Tanto le straniere quanto le italiane provengono inoltre da esperienze lavorative generalmente diverse da quelle della collaborazione domestica e familiare, e non sono quindi sempre preparate e formate in questo specifico settore. Molte, dopo aver rinunciato a trovare un impiego corrispondente alle loro aspettative o sulla base del proprio curriculum, si reinventano nel lavoro domestico e di cura, nonostante la maggior parte non individui in esso alcuna possibilità di carriera, valorizzazione e riconoscimento. E’ un lavoro che consiste nella gestione del retroscena socialmente invisibile degli individui, di aspetti della vita che essi stessi cercano di tenere nascosti.

Manca quella componente di orgoglio nel presentare la propria occupazione, nel raccontare i propri compiti quotidiani, tanto che le stesse lavoratrici spesso non sono affatto convinte dell’importanza delle mansioni da loro svolte. Sono poche dunque le lavoratrici che vivono tale professione come “un lavoro a tutti gli effetti” in grado di gratificare.

Ciò è determinato anche da una gestione familistica del rapporto di lavoro da parte delle famiglie/datrici di lavoro, il quale esige una richiesta di totale disponibilità giustificata dal fatto che “vengono pagate” o “devono accontentarsi” perché “stanno meglio che nel loro paese”. Ambiguità queste che sono generate dalla confusione tra mansioni definite contrattualmente e ruoli che attengono maggiormente alla sfera personale/familiare; forme di sfruttamento silenti che, se non gestite ed accompagnate, sfociano in conflittualità e vertenzialità aumentate in questi ultimi anni.

Da un punto di vista contrattuale ci sono inoltre molte lacune e diritti non riconosciuti o solo in parte garantiti (come la tutela della maternità, della malattia, o la contribuzione ridotta se comparata agli altri lavoratori dipendenti) che sicuramente non lo rendono attraente e tanto meno valorizzato.

Come Olga Turrini affermava negli anni ’70, ancor oggi la scarsa valorizzazione sociale e culturale di tale professione, fanno considerare quello domestico come “una professione poco professionale”, che insieme alle poche tutele contrattuali e alla sua fondamentale precarietà lo rendono poco appetibile.

Allo stesso modo, è indubbio che fra le pareti domestiche si sviluppino anche rapporti di forte prossimità, relazioni fiduciarie e di affetto cui spesso si accompagnano situazioni di profonda solitudine e di incomprensione: da un lato, la lavoratrice lontana dagli affetti più cari, con difficoltà linguistiche e con il suo portato di esperienze e tradizioni spesso sconosciute dall’assistito; dall’altro, l’anziano solo o le famiglie che oggi si trovano di fronte a maggiori difficoltà date dall’ansia, dall’insicurezza e dalla forte sensazione di abbandono.

Questa fotografia del lavoro domestico privato di cura porta a ribadire come sia importante investire in termini di politiche di sostegno alle famiglie con azioni mirate al riconoscimento culturale del lavoro di cura, nonché al sostegno attraverso azioni e servizi, creando delle reti della cura. Questo sarebbe utile per tutelare le lavoratrici e i lavoratori di questo settore, ma anche per garantire una cura adeguata alle persone assistite.

E’ importante procedere attraverso interventi che qualifichino e valorizzino il lavoro domestico di cura, rompendo il binomio famiglia datrice di lavoro – lavoratrice immigrata sfruttata. Occorre far emergere tale rapporto dall’informalità delle relazioni privatistiche ripensando il welfare della cura. E’ inoltre necessario organizzare il sistema delle politiche italiane di sostegno ai servizi alla persona in ambito domiciliare attraverso la presa in carico, da parte del settore pubblico e dei servizi socio-sanitari, della gestione e della garanzia di tutela dei livelli di assistenza nei confronti, in particolare, delle persone più bisognose che vengono curati presso le proprie abitazioni.

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